Rinviata, contestata, battagliata, ambiguamente sospesa e definitivamente lanciata venti giorni fa dal presidente Alvi, la corsa elettorale pakistana, che porta alle urne uno dei Paesi dove alberga l’islamismo fondamentalista globale, potrebbe veder correre anche l’ex presidente Imran Khan. Lui è attualmente in stato di fermo, ma da ieri la condanna che lo esclude per tre anni dalla vita politica è sospesa e i suoi sostenitori ne attendono la liberazione. Accanto a quel che appare come un ribaltone senza esclusione di colpi legali, cui partecipano severi pubblici ministeri per l’accusa e lucrosi avvocati in sua difesa, il leader dei Tehreek-e Insaf Pakistan va a riproporre un braccio di ferro politico già conosciuto. Una campagna anti casta che fa leva sui ceti meno abbienti contro i due blocchi storici dei partiti familiari: il Partito Popolare dei Bhutto e la Lega Musulmana-N degli Sharif, attualmente al governo con Shehbaz. Certo, nei quattro anni da premier Khan ha parzialmente offuscato l’immagine da contestatore della vecchia politica nazionale. Le accuse rivoltegli di mancanza di trasparenza attorno ai regali non dichiarati in qualità di premier sembrano un cavillo, eppure per il popolino diventano la cartina al tornasole di chi predica bene e razzola male. Però l’accanimento con cui giudici, polizia, finanche agenti speciali hanno in varie occasioni attentato alla libertà dell’ex premier con arresti anche illegali, hanno sviluppato nei suoi confronti una solidarietà militante pari solo a quella che contorna Erdoğan oppure Trump. Toccare Khan può scatenare battaglie di piazza senza esclusione di colpi. Eppure il sistema statale pakistano non fa sconti a nessuno, in passato figure insospettabili del calibro di Benazir Bhutto e Nawaz Sharif sono incappate nella dura legge in un Paese dove tensioni e conflitti d’ogni genere sono di casa. C’è da capire come in alcune province reagiranno gli strati popolari marginali che nel 2018 avevano riversato il voto sul Pti, un consenso strappato pure a coloro che prestano ascolto all’antistato di formazioni come il Movimento Muttahida Qaumi che da decenni raccoglie nella provincia Sindh i cosiddetti muhajir, i musulmani di lingua urdu d’origine indiana.
Quest’organizzazione ha conosciuto alti e bassi, scissioni interne, la durissima repressione proprio d’un decennio fa nota come “operazione Karachi” nella quale il Movimento fu attaccato e perseguitato per quasi due anni dal raggruppamento paramilitare dei ‘Rangers’ che serviva il governo della Lega Musulmana-N. Testimonianze mediatiche dell’epoca raccontavano di “mezze fritture” o “fritture complete” con cui venivano indicati in gergo ferimenti o esecuzioni sommarie di attivisti nella megalopoli meridionale. Altre formazioni islamiste: Jamiat-e Islami, Jamiat Ulema-e-Pakistan, Tehreek-e-Labbaik Pakistan, Tehreek-e Taliban Pakistan tuttora fanno convivere progetti di ribellione socio-politica, inseguendo il sogno dell’Emirato pakistano, e interlocuzione coi governi che si succedono. Alla cui guida ci sono stati Nawaz Sharif, persecutore e interlocutore di più d’un gruppo fondamentalista, e lo stesso Khan, finora solo dialogante, a tal punto d’essersi speso per il rilascio d’un rissoso galeotto come Hussain Rizvi, capo dei Tehreek-e Labbaik. In realtà, al di là di mosse estemporanee e populiste incarnate dai due ex premier, i veri registi d’ogni apertura o chiusura all’islam fondamentalista sono i vertici delle onnipresenti Forze Armate. Così fu per l’operazione Karachi fortemente voluta dai generali Rizwan Akhtar e Bilal Akbar, le cui carriere si conclusero alla guida dell’Inter-Services Intelligences per il primo, mentre il secondo divenne direttore generale dei temibili ‘Rangers’. Chiaramente il fanatismo religioso deobandi, che ispira più d’uno dei gruppi islamisti citati, risponde per le rime: a ogni azione subìta ne segue una contraria e altrettanto sanguinaria. Al cosiddetto colpo tagliente ‘Zarb-e Azb’ del giugno 2014 (migliaia di vittime anche fra la popolazione civile nell’area del Waziristan, una delle aree ad alta presenza talebana) voluto da un altro generale, omonimo ma non parente di Sharif, sei mesi dopo succedeva la strage della scuola militare di Peshawar (145 figli di alti ufficiali massacrati dai guerriglieri TTP). Semplicemente, occhio per occhio. Ora, in attesa delle elezioni, seppure l’intera politica pakistana sostenga che il terrore fondamentalista sia stato piegato, sotto la cenere delle contraddizioni cova il fuoco. Dalle proteste alle bombe.
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