mercoledì 1 marzo 2023

Italia a tutto gas nel Mediterraneo dei migranti e delle armi

 


Gas alternativo - Settantotto miliardi di metri cubi di gas naturale assillano i pensieri dell’attuale premier italiana Meloni e di chi, specialista nel settore come l’amministratore delegato dell’Ente Nazionale Idrocarburi Descalzi, l’affianca da ministro degli Esteri de facto sia che si viaggi verso l’Algeria sia verso la Libia. L’impresa è diversificare l’approvvigionamento nazionale, finito nel vicolo cieco della crisi Ucraina. Il nostro Paese, e un gran pezzo degli Stati dell’Unione Europea, dipendono ancora dalle forniture russe, da un anno oggetto delle note turbolenze legate al  balletto delle sanzioni correlato al conflitto energetico che accompagna quello bellico; riduzione dei flussi e sabotaggi al North Stream 1, il metanodotto del mar Baltico che trasporta il 40% del gas che transita verso l’Europa. Si punta, dunque, a sganciarsi dall’oro di Mosca, che per Roma e l’intera penisola costituisce tuttora il 38% delle forniture, e ampliare altre partnership. Innanzitutto con l’Algeria, oggi a circa il 30% degli acquisti (22 miliardi di metri cubi di metano), che entro un biennio aumenteranno sino a 36 miliardi di metri cubi. E’ quanto prevede la calorosa stretta di mano fra Claudio Descalzi e Toufik Hakkar, suo omologo per Sonatrach, azienda petrolifera algerina, la maggiore società per azioni africana. E’ il passo più importante d’un programma avviato dal precedente governo e ripreso in pompa magna dall’attuale esecutivo, che pensa in grande e vuole varare - così dice - un hub energetico per servire l’intero continente. Invertendo la latitudine della bocca calorica da nord a sud. Sembra facile, ma ci vorranno tempo, denaro, lavoro per creare infrastrutture adeguate che non si sa bene chi finanzierà. Per ora opera il Transmed, duemila km di condutture fra Algeria-Tunisia-Italia fino a Mazara del Vallo. Servirà volontà politica, che sempre deve accordarsi prim’ancora che con gli interessi economici (che bene o male si trovano) con le desiderate, i condizionamenti, le influenze  internazionali. Il ‘Secolo Breve’ ha conosciuto,  oltre a conflitti per l’accaparramento di fonti energetiche fossili e idrocarburi, anche imposizioni e forzature, dai colpi di mano golpisti delle “Sette sorelle” ai colpi di mercato della crisi petrolifera seguita alla guerra dello Yom Kippur. Fino all’odierno sganciamento dal gas moscovita, i cui lucrosi contratti erano stati sottoscritti dall’Unione Europea a inizio Millennio. Il ‘maestro di cerimonie’ Berlusconi e Bush junior, Chirac, Blair - tutti plaudenti durante l’Accordo di Pratica di Mare (2002) - sottovalutavano l’autocrazia di Putin? Chissà. Continuarono a definirlo un partner affidabile sul versante mercantile e strategico anche negli anni esplosivi di Groznyj, quando faceva sventrare città, massacrare i ribelli ceceni e la popolazione medesima. 

 

Piano Mattei - L’Italia che usciva dal boom economico del 1955-60, diventata consumatrice - non certo coi ritmi e le quantità odierne del mondo globalizzato (nel 1965 l’energia mondiale bruciava 4.000 milioni di tonnellate di petrolio,  diventati 10.000 milioni di tonnellate alle soglie del Duemila) - traeva i rifornimenti da quel Maghreb che oggi rincorre. Mattei fu l’ambasciatore economico di accordi e forniture con quell’area geopolitica, ancora in odore di emancipazione e liberazione. Operando addirittura in Libia, dove le memorie di coercizione coloniale avevano il lemma italico. Poi Egitto, quindi Persia e Algeria, terreni minati da ingerenza e presenza lì britannica, qui francese. Un uomo che è stato imprenditore, partigiano, dirigente pubblico, politico di ritorno contro politici di professione, impostore a detta dei detrattori, e vittima per mano di nemici. Che furono diversi, sospettati ma mai trovati. La sua fine è l’anticamera di altri “misteri” stragisti susseguitisi, decennio dopo decennio, nell’Italia contemporanea. Con Mattei s’apriva uno scenario impregnato di speranza e fatti concreti che fu l’Italia del secondo dopoguerra, intitolargli l’attuale progetto energetico governativo sa di maquillage. Infatti alcuni analisti hanno parlato di “trovata pubblicitaria” di Palazzo Chigi. Secondo Zine Ghebouli, studioso di cooperazione euromediterranea e di politica algerina presso l’Università di Glasgow, dopo la firma dell’accordo: “L'obiettivo è passare dalla cooperazione energetica alla cooperazione in economia, difesa e politica estera”. E ancora: "L'Italia non ha né i mezzi coercitivi per combattere il jihadismo né la forza economica per promuovere lo sviluppo in Africa, ha un piano e ha identificato l'Algeria come partner strategico-chiave in questo sforzo". Un disegno che travalica la sfera gasifera citata e punta ad altri affari. Quali? Basta osservare l’elenco del fatturato nazionale e, dopo i colossi energetici (Eni, Enel), quelli bancari (Intesa Sanpaolo, Unicredit) e telecomunicazioni (Tim) svetta Leonardo, la società dell’aerospazio e della difesa che supera le stesse aziende dei trasporti. Il 70% del suo fatturato è dedicato alla sicurezza. E il florido mercato delle armi interessa ai dirimpettai mediterranei del Maghreb. Evidenziava di recente il collega Attanasio, proprio su “Confronti”: “… La collaborazione fra i due Paesi (Algeria e Russia, nda) ha avuto un’accelerazione esponenziale negli ultimi tempi e dovrebbe portare in breve l’Algeria a divenire la più grande importatrice di armi russe al mondo… Mosca e Algeri sarebbero vicini a un accordo di portata colossale che condurrebbe il Paese maghrebino a fare un upgrading netto nelle spese per armi russe e a passare dai 4,2 miliardi di dollari del 2021 ai circa 12 di adesso …”   

 

Competitor - Proporsi hub energetico per il vecchio continente, oltre a fare i conti con gli umori di amici europei grandi e piccoli che potrebbero pensarla diversamente, ci mette in competizione diretta con la Turchia. E’ lei a rappresentare il centro di smistamento di gas verso ovest che garantisce dalla Grecia alla Spagna, dalle coste italiane a quelle danesi di non restare a secco per gli alti e bassi di North Stream 1. I due gasdotti sotto il Mar Nero, Turkstream, che trasporta metano alle sponde del Mar di Marmara, e Blue Stream, che lo rifornisce dal settentrione dell’Anatolia, funzionano. Certo, riforniscono gas russo e se la posizione di Bruxelles continuerà a negare i commerci con Mosca, questo mercato potrebbe chiudere i battenti. Ma i giri dell’energia e dei suoi prodotti sono infiniti: nei primi mesi del conflitto ucraino l’Europa delle sanzioni aveva acquistato senza battere ciglio derivati del petrolio russo dall’India. La competizione si sposta anche sul Mediterraneo, che fu ‘Mare Nostrum’ ma che è stato anche il ‘Mare Bianco’ dell’Impero ottomano, e che più praticamente vede le odierne aspirazioni di potenza regionale di Ankara attraversare il Medioriente e lanciare  Mavi Vatan, la Patria Blu. Un pallino del nazionalismo turco elaborato quindici anni fa dall’ammiraglio Cem Gurdeniz e ripreso dalla carta assorbente della geopolitica erdoğaniana che si accredita nella fascia orientale di questo mare e non solo. Con quali fini è presto detto: economico, energetico, strategico. Se coi rissosi vicini greci e ciprioti, le tensioni passano per lo sfruttamento delle incerte ‘Zone Economiche Esclusive’ comprensive di giacimenti sottomarini (incerte perché ogni Paese traccia a sua discrezione quelle mappe), per il Nord Africa la politica estera turca non è stata alla finestra. 

 

Tripoli bel suol... - Ha puntato diritto sulla Libia, dove più d’un secolo fa venne scalzata dall’Italia “coloniale”. L’ha fatto e lo sta facendo con l’impeto del suo presidente che si rafforza nel caos e nella battaglia. La Libia è uno dei non pochi Stati falliti fra Maghreb e Mashreq, falliti per la caduta di regimi che, in parte, il colonialismo di ritorno europeo ha foraggiato. Accanto alla bontà petrolifera del sottosuolo (il suo petrolio è puro e ha basso contenuto di zolfo), quel Paese si accredita quale hub della migrazione clandestina verso l’Europa. E’ stato, e può continuare a essere, terreno di scontro per politici calati dall’alto: prima l’evanescente benestante Al Serraj, ora il torbido miliardario Dbeibah, sostenuti da parte del blocco occidentale. Contro c’è il ruvido e pragmatico signore della guerra Haftar, foraggiato dall’emiro Khalifa bin Zayed, dal presidente golpista Al Sisi, dalle milizie private di Putin, dallo stesso Eliseo lanciato in un doppiogiochismo diplomatico. Più spericolato di Macron è appunto Erdoğan, che negli ultimi quattro anni s’è speso sulle sabbie e soprattutto nei cieli libici percorsi dai familiari droni Bayraktar, e ha consolidato il ruolo di stratega nel Mediterraneo, diventando il battitore libero dei traballanti governi di Tripoli. Ha avanzato ipoteche sul business energetico: ridimensionato dall’eccessivo giro delle armi quello petrolifero (nel 2022 le esportazioni si sono dimezzate a 600.000 barili al giorno rispetto all’anno precedente), sempre attrattivo quello del gas, anche perché il giacimento prospiciente le coste libiche pare risultare ancor più fruttuoso dell’egiziano Zohr. E’ lì che si lancia l’Italia con un affare da otto miliardi di dollari: la quota di metano in più (un miliardo di metri cubi disponibile dal 2026, dopo lo sviluppo delle ‘Strutture A&E’) passerebbe sempre nella condotta Green Stream, che opera dal 2004 con 520 km di tubi fino a Gela. In tal modo Roma amplia la partnership con clienti arabi, aggiungendola a quella avviata con Al Sisi infischiandosene del politicamente corretto reclamato per l’Ucraina o l’Iran. C’è poi l’affanno della migrazione clandestina. Del resto del ‘Memorandum’ del 2017, che l’ex ministro dell’Interno Minniti sottoscriveva trattando coi clan del Fezzan, si osservano solo gli effetti delle sopraffazioni perpetuate dalla polizia libica sui migranti, non certo il contenimento dei flussi. Sul tema, che coinvolge il nostro Paese come punto d’approdo, l’Europa fa spallucce, lasciando prosperare i traffici gestiti da una poliforme malavita locale e internazionale. In attesa di vedere gli effetti del patto firmato a fine gennaio da Meloni e Dbeibah, è bene notare come il locale ministro del Petrolio aveva disertato la cerimonia e che la libica National Oil Corporation, è da qualche mese guidata dall’ex banchiere Farhat Bengdara. Costui è schierato con Haftar finora antagonista del premier libico. Ben più che in Algeria quest’accordo, egualmente propagandistico, potrebbe trasformarsi in carta straccia se il boss di Bengasi dovesse risultare “scontento” e mettersi di traverso. 

 

L’altra Africa - Accanto ad Algeria e Libia c’è un’altra Africa, dove la concorrenza diretta al recente attivismo estero del nostro governo è in continua evoluzione, anche perché staziona in quei luoghi da almeno un decennio. Naturalmente parliamo delle presenze più recenti, non del colonialismo entrato nei libri di Storia. Gli interessi che ispirano l’intervento francese, russo, turco sono finanziari, ma soprattutto politici e strategico-militari. Coinvolgono una fascia geografica amplissima che va dall’area sahariana e subsahariana di Mauritania, Mali, Niger, Ciad sino al Sudan, e a Etiopia e Kenia. Abbracciano iniziative in corso d’opera e situazioni fallimentari, come l’operazione Barkhane dalla quale Parigi s’è definitivamente smarcata dopo otto anni attenzione e tensione. Si trattava d’una missione di polizia internazionale contro l’insorgenza jihdista espansa in Stati dai confini labili e dagli intenti altrettanto inaffidabili per l’inconsistenza della classe dirigente locale, in vari casi sponsorizzata dall’Occidente. Fino a conoscere un rovesciamento delle posizioni, com’è accaduto con la giunta militare maliana diventata ostile alla missione. Lì dove la forza delle armi supera quella anche di ragionevoli interessi è più facile discorrere fra simili, cosicché i mercenari del Wagner Group al soldo di Putin hanno rimpiazzato chi, parlando di rigenerazione sociale, s’occupava prevalentemente di basi antiterroristiche. Non che Mosca abbia grandi piani umanitari, ma fuori dai denti continua a scambiare locali risorse del sottosuolo (oro, nickel, uranio e pure petrolio) con favori tattici dei suoi reparti e una nutrita mercanzia di armi. Ankara, per cercare sponde coi governi dell’Africa cui è interessata, si dà da fare nel metter su infrastrutture. Parecchie sono militari: gli aeroporti di Mitiga e Misurata, la base navale sempre a Misurata, la base aerea di Watiyya ancora in Libia. Ma ha costruito l’aeroporto e il porto di Mogadiscio, l’aeroporto internazionale Blaise Diagne a Dakar, le cui strutture e il design sono delle holding turche Limak e Summa sebbene gran parte del finanziamento (400 dei 566 milioni di euro) provengano dal Saudi Binladen Group, la multinazionale della famiglia del noto capo di Al Qaeda. In ogni caso le strutture restano e seducono la popolazione, non solo i loro interessati governanti. 

(pubblicato sul numero di marzo/2023 di Confronti)

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