Saranno i kurdi l’incognita delle elezioni presidenziali e politiche del centenario della nazione turca che mai li ha amati. La scelta di rinunciare a un proprio candidato espressa dal Partito democratico dei popoli (Hdp), che otto anni fa alle urne toccava il 13%, è una mossa che potrebbe sfavorire chi a queste elezioni tiene come alla sua vita: Recep Tayyip Erdoğan. Il politico più in vista del Paese, d’un gran pezzo di Medio Oriente e della geopolitica internazionale. Amato e odiato, ma certamente più popolare dello sfidante principale, il leader repubblicano Kılıçdaroğlu. Nella scelta operata dall’Hdp c’è realismo politico: un proprio candidato, peraltro non di nome visto che i maggiori leader sono incarcerati dal novembre 2016, non avrebbe avuto chance e avrebbe tolto voti al cosiddetto “Tavolo dei sei”, l’alleanza anti Erdoğan. Però non è detto che il gruppo filo kurdo divenga a tutti gli effetti la settima gamba di quel tavolo. La propaganda del partito di maggioranza (Akp) tale lo considera, e il presidente in persona negli interventi pubblici che iniziano a rincorrersi così ha definito l’Hdp: “E’ il settimo partner di quel tavolo”. La svolta era stata preceduta da una visita di Kılıçdaroğlu al quartier generale kurdo, che ha fatto da anticamera all’intento di sostenere il percorso presidenziale del capo repubblicano. Fra le parti sono stati intrapresi solo incontri cordiali, non c’è nulla di scritto, né il “Tavolo dei sei” ha mosso un dito per sostenere il diritto di parlamentari detenuti, come il co-presidente dell’Hdp Demirtaş, di partecipare alle elezioni. Perciò la scelta del vertice kurdo appare più un gesto tattico che una relazione in divenire. E bisognerà vedere se il suo elettorato più numeroso, concentrato nelle province orientali, se la sentirà di appoggiare un uomo di per sé poco carismatico, chiuso nei due dogmi del proprio percorso politico ed esistenziale: essere un fervente kemalista (non a caso in famiglia l’hanno chiamato come Atatürk); appartenere alla comunità alevita, se non una setta, certamente una minoranza privilegiata rispetto ai bistrattati kurdi. Che proprio il partito repubblicano nell’ultimo quarantennio abbia perseguitato più d’ogni altro gruppo di potere turco la comunità kurda, è una memoria che si tramanda in ogni famiglia che ha avallato la repressione e l’ha subìta.
Certo, nei suoi interventi pre-elettorali nient’affatto diplomatici Erdoğan dice: “L’Hdp è uguale ai terroristi del Pkk”, ma c’è una parte dell’etnìa che storicamente gli offre appoggio. In talune elezioni i voti kurdi per l’Akp sono ammontati a sei milioni. Gli analisti valutano se la frammentazione creatasi negli ultimi anni con la nascita di partiti animati da ex ministri di fiducia del presidente (Davutoğlu e Babacan) e quello della combattiva nazionalista Meral Akşener - ora appassionatamente riuniti in lega contro Erdoğan - possano ripetere l’effetto tsunami delle amministrative 2019. Allora il “sultano” dovette ingoiare lo scippo delle maggiori municipalità del Paese, fra cui la capitale e la metropoli simbolo sul Bosforo. Ma quel successo repubblicano ruotava attorno a figure alternative al vecchio capo del Chp, era motivato, ad esempio a Istanbul, dalla rivolta degli stessi elettori dell’Akp alla linea dell’accoglienza verso gli ottocentomila siriani alloggiati in città. Si trattò quasi d’una resa di conti interna. Che potrebbe ripetersi anche ora con un quadro economico seriamente compromesso, un’inflazione che si mangia il potere d’acquisto per lavoratori, ceti medi e gli stessi imprenditori a caccia di materie prime. Per tacere della sciagura del sisma che, con le cinquantamile vittime, il milione di sfollati, le tre o quattrocentomila abitazioni da ricostruire, ha messo il dito nella piaga delle carenze e delle responsabilità di edificatori senza scrupoli e di politici, in genere dell’Akp, che li hanno favoriti. Dopo il disastro sono giunte le reprimende con arresti anche copiosi, però fra i costruttori, mentre i corrotti amministratori non sembrano entrare nell’occhio del ciclone giudiziario. Eppure sulle promesse da cento miliardi di dollari necessari per la riedificazione, con contributi esteri non indifferenti, Erdoğan può rigiocarsi l’elezione che lo renderebbe immortale, più di Atatürk. A calamitare i finanziamenti delle petromonarchie per ragioni politiche, quelli europei per interessi finanziari, quelli statunitensi per tattiche militari può essere solo la sua persona. Questo pensa l’elettore che s’arrabatta se consegnargli ancora la nazione oppure toglierla dalle sue mani il fatidico 14 maggio.
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