Ciò che gli osservatori avevano posto al centro dell’attenzione
per le amministrative turche: quella crisi economica che attanaglia il Paese,
facendo segnare un’inflazione al 20% e una disoccupazione al 13% tanto da
costituire un fattore di rischio per il governo-regime dell’Akp, ha confermato
i timori. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo perde la capitale e, al
momento della stesura di queste note anche la metropoli simbolo tanto cara a
Erdoğan: l’Istanbul che l’ha visto calciatore e sindaco, leader e premier,
ammaliatore e fustigatore, benefattore per chi aderiva al suo sogno di
diventare un presidente onnipotente. In realtà nella metropoli sul Bosforo i candidati
sindaco İmamoğlu (opposizione) e Yıldırım (governo) si sono entrambi dichiarati
vincitori di stretta misura: per 28.000 e 4.000 preferenze quando sono state
scrutinate il 99% delle sezioni. Ma l’agenzia Anadolu dà il successo al primo col 48.6% contro il 47.7%.
Trattasi, per ora, d’un lancio d’agenzia ufficioso poiché sono in corso controlli
su schede contestate e i candidati
s’inseguono a filo, ma ormai il dato viene confermato anche da altre agenzie
internazionali. Più definita la sconfitta dell’uomo con cui il presidente aveva
cercato di tamponare il malcontento circolante: Mehmet Özhaseki ha ottenuto il
47.2% dei consensi, mentre il volto dell’opposizione Mansur Yavaş ha superato
la metà dei votanti e col 50.9% e assume la guida dell’altra città simbolo,
quella del potere effettivo, dove sono il Meclis e il sontuoso palazzo
presidenziale. Una beffa doppia perché com’era stato previsto dai sondaggi Yavaş,
forte di una propaganda vivacemente nazionalista, s’è fatto lupo fra i ‘Lupi
grigi’ e ha raccolto parecchi voti su quella sponda.
La scossa, dunque, c’è
stata. La piccola borghesia urbana - di cui il partito di governo dal 2002
raccoglie il consenso, preoccupata da una crisi di cui negli anni addietro aveva
solo sentito parlare - reagisce voltando le spalle all’osannato fautore di
quell’impulso, lanciato dal primario liberismo di Özal e orientato verso un
sistema di consenso dall’ideologizzazione erdoğaniana. Ancor più clamoroso è lo
schiaffo repubblicano nella terza città turca, Izmir, dove Mustafa Tunc Soyer
col 58% sopravanza nettamente l’uomo del blocco islamico, Nihat Zeybekci fermo
a un 38.5%. Consola solo parzialmente il risultato generale che offre il
successo all’Alleanza del popolo (Akp più i nazionalisti del Mhp) con 51.7%,
mentre l’opposizione, pur vincente nelle citate città, non va oltre il 37.6%. Non
solo i sondaggisti, gli stessi consiglieri economici del sultano avevano
dipinto un quadro a tinte fosche, seppure oggi ciascuno guarda al proprio bicchiere
mezzo pieno. Erdoğan da giocatore incallito, ma anche da lottatore indomito, fa
capire d’avere in mano la formula per la ripresa: le sognate riforme. E
conferma che la strategia per la cura ricostituente dell’economia interna
prevede una conservazione delle regole del libero mercato, mentre maledisce gli
speculatori finanziari che si sono accaniti sulle debolezze turche, come se
quello non fosse il princìpio vitale dei meccanismi borsistici globali.
Nei dati pervenuti l’opposizione kurda, che non mostrava accordi
con altre componenti d’opposizione (i più democratici risultano i
repubblicani), ha una percentuale del 4,22% parecchio al di sotto dei lusinghieri
risultati degli anni precedenti. Bisogna considerare il peso della repressione
degli ultimi tre anni che ha mietuto vittime civili e condotto in prigione
migliaia non solo di attivisti, ma di sindaci e pubblici ufficiali, ben 90
municipi sono stati sciolti con la forza da polizia, esercito, magistratura. Il
Partito Democratico dei Popoli conserva il suo primato nel sud-est a Mardin,
Diyarbakır, Batman, Siirt, Van, Hakkari, e a nord-est a Kars, Iğdır. Invece
anche in province (Ağri, Şırnak) da tempo apertamente schierate con questa
formazione, l’Akp ottiene la maggioranza utile a lenire lo smacco della perdita
delle tre maggiori città del Paese. E’ la solita Anatolia rurale a contenere
una flessione che vede il partito-regime attestato sul 44%, certo ampiamente superiore
al 30% dei repubblicani, l’unica forza d’opposizione in grado d’impensierirlo.
Da questo confronto che, se non ci saranno terremoti socio-economici, terrà
lontano dalle urne gli elettori sino al 2023, escono due novità. S’apre una grossa
crepa sull’invincibile compattezza dell’Akp che, finora aveva superato anche
contrasti e defezioni interne di leader noti. Perdere d’un colpo città-simbolo
come Istanbul e Ankara ridimensione il carisma presidenziale, lanciando il
messaggio che un rovesciamento di chi ha monopolizzato costituzionalmente il
potere può diventare possibile. Viene ribadito, anche a favore dell’opposizione,
il quadro che in un Paese polarizzato le alleanze risultano vitali. Fattore che
finora aveva legato le sorti di islamisti e nazionalisti parafascisti e che per
ora ha avvicinato repubblicani e i nazionalisti Iyi Parti, cui i turchi danno 3
milioni e mezzo di voti, più della formazione di Bahçeli.
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