“Questo non è più il Paese per cui i nostri padri fondatori hanno combattuto e sono morti”. Nell’ascoltare le odierne riflessioni dei politologi indiani sulle smanie del primo ministro Modi, viene alla mente l’allarme di taluni giuristi nostrani davanti al disegno di Riforma costituzionale dell’attuale premier Meloni, peraltro silente sul riconoscimento dell’antifascismo quale valore fondante della Repubblica Italiana. L’India plasmata dal Bharatiya Janata Party stravolge il modello laico della nazione indiana che si emancipava dal colonialismo britannico. Al di là dell’orientamento socialisteggiante di Nehru scomparso con lui, è quel senso di giustizia, libertà, uguaglianza che appare abbandonato a vantaggio d’un fondamentalismo religioso in salsa hindu. E poi d’un liberismo economico e di un individualismo biecamente classista, cui s’aggiunge l’esaltazione d’un nazionalismo che lascia ampie zone d’ombra sui risvolti fascisti, xenofobi, razzisti dei propri sostenitori. Sarà stato quest’ultimo comune denominatore a far scoppiare la passione fra le due Emme, definita ‘Melodimania’? E’ al G20 di Nuova Delhi che il gigante e la bambina dell’attuale geopolitica mondiale - in rappresentanza della ciclopica India dalle mille contraddizioni e di un’Italietta lanciata sul proscenio internazionale - si sono incontrati e infatuati. In realtà è più la nostra leader a sedurre con selfie comuni l’omologo indiano e corteggiarlo, politicamente s’intende, per il bene del Pil italico. Eppure questo serve a poco se i rispettivi Paesi proprio in questi giorni si misurano attorno all’annosa questione dell’ex Ilva di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia, da cui il socio di maggioranza, la multinazionale indiana AncelorMittal, vuole smarcarsi. In barba agli accordi sottoscritti e al futuro dei ventimila lavoratori dell’azienda. Urso, il melonissimo ministro delle Imprese (e del mady in Italy, sic), in queste ore parla di “momento decisivo” della trattativa. Fantasiosa e manipolante retorica, visto che gli esperti la definiscono morta e sepolta, almeno per volontà dei manager indiani. Costoro seguono l’impronta del fondatore della società, attiva finora in una dozzina di nazioni. E’ Lakshmi Mittal, un Paperone senza scrupoli.
Nato nel Rajastan e da molto tempo residente a Londra in base a un portafogli spropositato messo su seguendo per un periodo le orme paterne, quindi lanciandosi in rampanti operazioni di economia finanziaria in giro per il mondo. Fortune acquisite anche portando dolori e lacrime fra i lavoratori dell’acciaio, incensati e poi abbandonati davanti agli altiforni spenti in casa loro e accesi altrove. Un capitano d’industria del Terzo millennio non diverso da altri, cui la politica italiana avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione, quando cinque anni or sono ne accolse l’interessamento. Certo su crisi che coinvolgono imprenditori spregiudicati i vertici nazionali possono poco. Ma i precedenti governi italiani (Gentiloni, Conte, Draghi), pur accettando una partnership, avrebbero dovuto investire in proprio e acquisire il pacchetto di maggioranza, mossa che attende anche l’attuale esecutivo che probabilmente farà come chi l’ha preceduto: cercare nuovi azionisti e tirare a campare. Davanti a una fabbrica da rinnovare attraverso tecnologie non inquinanti e a un territorio da salvare da pericolosissimi malanni e da un’occupazione da preservare. Governance come l’attuale indiana in casa propria favoriscono comportamenti di assoluta libertà per produzioni senza regole sia riguardo al lavoro delle maestranze sottopagate e non tutelate sul fronte della salute, sia a quel che si fa nelle aree industriali. Quest’assenza di norme e di controlli il magnate Mittal va a cercarle in Kazakistan e in Bosnia dove investe. Sarebbe interessante sapere se anche i governi Ue di Spagna, Repubblica Ceca, Romania, dove AncelorMittal produce acciaio, riescono a lasciar fare e incartarsi com’è accaduto all’Italia. Perché lo scaltro Lakshmi nella sua capitalizzazione a tempo limitato nell’ex Ilva non pensava certo a bonificare i 15 km quadrati dell’Inferno prodotto dalla gestione degli italianissimi Riva, complici e assenti i governi dell’epoca. Ora il miliardario indiano saluta e se ne va. Non saranno i premier Meloni e Modi a trattenerlo, in base al liberismo comune, al nazionalismo spensierato e sregolato che si autocelebra oltre confine e pure in patria. Per la propria gioia elettorale e i guai dei cittadini.
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