Mentre piangevano Soleimani nella sua città natale di Kerman, seicento chilometri a oriente della più nota Shiraz, lacrime e sangue sono diventate una tragica pioggia. Due esplosioni in successione si sono portate via 180 iraniani in un devastante attentato modello Isis la cui mano sconosciuta - e tale potrebbe rimanere - lancia i sospetti su chi attualmente teorizza di allargare la guerra contro Hamas: il governo Netanyahu. Appena una settimana fa i vertici di Teheran avevano subìto un attacco al cuore della propria gerarchia militare, Razi Mousavi vicinissimo al capo delle Forze Al Quds finché era rimasto in vita, veniva freddato a Damasco con l’ausilio d’un missile. Prodromo di un’azione simile compiuta due giorni fa nel fortino sciita di Beirut, quella Dahieh che non preserva dai droni e ha visto macellato il vice di Haniyeh Saleh Al Arouri. Colpire il Movimento di Resistenza Islamico ovunque, è il piano del premier d’Israele, ma com’è evidente non si vuole stroncare soltanto quella formazione. Usare la fauda per incrementare il disordine nell’intera regione diventa la ragione con cui l’attuale governo di Tel Aviv, che nessun altro orientamento politico interno vuole o riesce a scalzare, prova a salvare se stesso. Senza curarsi di diventare un novello Sansone orientato a distruggere e autodistruggersi, poiché l’allargamento del conflitto questo può significare per lo stesso Stato ebraico. Finora i nemici vicini, Hezbollah, e lontani, Pasdaran, sono stati fermi. Troppo disastrato è il Libano per nuovi venti di guerra, troppo lacerato dall’anno di proteste interne oltreché dalla rovinosa economia, è l’Iran. Su entrambi quei reparti militari pesa il logorante quinquennio di guerra siriana. Però esistono realtà e limiti al di là dei quali entrano in gioco non tanto l’immagine e la fedeltà al proprio orizzonte politico, ma l’integrità territoriale su cui s’insinua l’assalto sionista.
Dentro il limes del sud del Libano non si combatte da diciotto anni, certo volano missili e droni che portano morte in casa e fuori. Ma quanto potrà durare questa deterrenza? Dopo il tiro a bersaglio sul cielo di Dahieh neppure Nasrallah è al sicuro, dovrà riparare sottoterra come le talpe di Hamas nella Striscia? Le strade rossosangue di Kerman hanno di enorme il numero delle vittime, eppure non sono le prime. Anni addietro altri attentati colpivano l’entourage degli ayatollah, principalmente il gruppo degli ingegneri impegnati nell’arricchimento dell’uranio che guarda al nucleare, non solo civile. Dal 2010 c’è stato uno stillicidio di agguati mortali e ardimentose esecuzioni mirate che l’Intelligence interna non è riuscita né a sventare, né a rivelare. I sospetti rivolti al Mossad restano, mancano quelle prove che difficilmente agenti efficienti lasciano sul terreno. Si è supposto il possibile coinvolgimento anche di oppositori armati, soprattutto quei ‘mujaheddin del popolo’, sostenuti dall’Occidente, che fuori tempo massimo millantano grandi capacità militari. Qualche esperto dei Servizi ritiene che sofisticati oppositori al regime possano fungere da trojan e spie interne, rischiando ovviamente molto, ma risultando preziosi basisti per le imprevedibili e spettacolari operazioni degli 007 d’Israele. Probabilmente del lacerantissimo agguato mortale di Kerman non si conoscerà la matrice, ma la deriva proiettata su questa fase geopolitica è ampiamente preoccupante. Soprattutto se l’impotenza della comunità internazionale verrà ribadita dalla volontà di fregarsene di tutto: di decine di migliaia di palestinesi massacrati, cui s’aggiungono cittadini d’altri Paesi diventati bersaglio d’un disegno criminale che calpesta il genere umano prim’ancora di qualsiasi diritto internazionale, della facoltà di avere una patria, una casa, un’esistenza minimamente dignitosa. Di poter svegliarsi mangiare e dormire senza morire.
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Nb Le vittime accertate della strage sono 84, sebbene ci siano feriti in condizioni assai gravi. L'attentato è stato rivendicato dall'Iskp, lo Stato Islamico del Khorasan.
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