Ora che la merce internazionale torna a circumnavigare l’Africa come ai tempi della Compagnìa delle Indie, con l’aumento di tempi e costi che incidono sul suo affarismo, certa mediologia a orologeria scopre i ribelli Houthi, i loro attacchi, la conseguente pericolosità e in coda, molto in coda, la guerra che costoro combattono da un decennio contro le truppe governative e contro le petromonarchie più potenti foraggiate dagli Usa, sauditi ed Emirati arabi. Così uno dei conflitti irrisolti nel patchwork della guerra frazionata in Medioriente che ha prodotto 380.000 vittime, soprattutto fra la popolazione civile bombardata dagli F16, come in questi giorni sono colpite dai Tomahawk le piattaforme di lancio Houthi. Si tratta degli attacchi-difensivi (sic) americano e britannico per placare gli assalti alle navi mercantili e l’uso di razzi iraniani e cinesi da parte dei miliziani sciiti che vogliono fermare Israele e i suoi alleati dai massacri di gazesi. E’ un alibi dei guerriglieri sciiti per entrare in scena da protagonisti in un’area di crisi sempre più ampia? Sì. Per quanto questa componente stia praticando la propria guerra, fra il disinteresse del mondo, appunto da un decennio. E’ un impegno di prossimità a favore dell’Iran? Sicuramente. Poiché l’Occidente statunitense ed europeo lo ‘scontro economico’ con Teheran lo attua da tempo usando l’arma dell’embargo che impoverisce i consumatori iraniani ma pure quelli del vecchio continente, cioè tutti noi. Un esempio inconfutabile riguarda il costo del gas, che avremmo potuto e potremmo ricevere dall’Iran a prezzi decisamente inferiori di quelli conosciuti, anche prima della crisi ucraina, col metano russo. E’ la strategia - politica e militare - a influenzare l’economia o è quest’ultima a determinare la geopolitica? Lo sono entrambi, visto che il legame è storicamente strettissimo. Ma in epoca di globalizzazione tutto è diventato accelerato, pericoloso, tragico. E le guerre scatenano mattanze causate dalla deflagrazione delle bombe e dei mercati che colpiscono la popolazione, mentre al solito i ceti dirigenti e finanziari s’ingrassano.
Lo scontro in Yemen è modulato all’interno fra componenti tribal-religioso-politiche che hanno visto i ribelli Houthi contrapposti al governo centrale, dopo l’abbandono del presidente Saleh messo alle stratte dalle rivolte della Primavera 2012. Dall’esterno l’Arabia Saudita è intervenuta fornendo armi al governo presieduto dal Mansur Hadi e lanciando raid aerei sulle zone settentrionali del Paese, dove vive la comunità sciita zaidita. Questi bombardamenti periodici che dal 2015 causavano migliaia di morti fra i civili, un po’ come fa ora Israele sugli abitanti della Striscia, non scuotevano coscienze morali, né politiche. Qualche organismo umanitario lanciava appelli contro le stragi, poco ascoltate dalle Nazioni Unite, perché il “Grande Satana” iraniano si poneva in appoggio al gruppo ribelle. Una vicinanza religiosa, visto che lo zaydismo rappresenta uno dei tre rami dell'islam sciita. Per precisione gli studiosi lo indicano come un orientamento che s’avvicina al sunnismo, sebbene si tratti di un’evoluzione sviluppatasi nei secoli solo in terra yemenita. Più consistente è l’interesse iraniano, nel contrastare a distanza il desiderio egemonico regionale saudita, di trovare un alleato tattico anche nella punta estrema della penisola arabica che nella strettoia marina del Golfo di Aden, l’imbuto in cui il traffico mercantile mondiale usufruisce del passaggio attraverso il mar Rosso e il canale di Suez, risulta strategica. Qualsiasi politico, qualsiasi stratega militare metterebbe in connessione le vicende yemenite e i lucrosi commerci internazionali che transitano lungo quelle coste per posizionare se stesso su un palcoscenico seppure bellico. Netanyahu e Sinwar lo fanno. Biden e la diplomazia mondiale a loro modo pure. Perché non dovrebbe farlo Abdul Malik al-Houthi che dalla vicenda ha poco da perdere e abbastanza da guadagnare almeno in notorietà?
Chi è costui? Quarantaquattro anni al-Houthi viene da una famiglia presente nella vita pubblica nazionale con un padre teologo e un fratello maggiore parlamentare e oppositore di Saleh. Proprio il fratello Hussein ha fondato il movimento Houthi per promuovere servizi educativi e sociali in contrasto con un operato nullo del governo. Alla sua uccisione Abdul Malik ha preso il testimone del gruppo. Dichiarato ferito e successivamente ucciso, secondo voci messe su ad arte dagli avversari, Abdul Malik ha continuato a guidare i ribelli che negli anni hanno raggiunto alcune migliaia di adepti, allargando gli orizzonti politici. Il conflitto interno già a fine 2015 aveva conosciuto il defilarsi del presidente Hadi e il proseguimento degli scontri unicamente per il sostegno dei sauditi che impiegano in loco proprie truppe e mercenari. E mentre le istituzioni della sedicente Repubblica presidenziale conoscono la conduzione di leader fantoccio - come accade negli Stati falliti conosciuti in questi anni dall’Afghanistan alla Libia - quel che dovrebbe inquietare una silente comunità internazionale è la profusione di finanziamenti bellici da parte delle democrazie occidentali. Il Regno Unito ha finora venduto armi ai sauditi impegnati in questo conflitto per sei miliardi di sterline. Eppure la scorsa primavera c’erano stati scambi di prigionieri fra Ryadh e Sana’a, in quella circostanza la mediazione dell’Onu risultava utile a tenere in equilibrio una trattativa che ruotava sul rilascio d’un migliaio di prigionieri. Ne è seguita la liberazione di pochi uomini di entrambe le parti, col mantenimento del controllo della capitale e del nord del Paese degli Houthi e dello Yemen del sud della coalizione delle petromonarchie, mentre nelle aree desertiche orientali si riscontravano infiltrazioni di milizie jihadiste di varia tendenza. Tutto è rimasto fermo per mesi sino alla fiammata del 7 ottobre scorso. E all’interesse diretto degli Houthi, solidali con la popolazione palestinese, con la novità degli assalti alle navi containers dei signori Musk, Bezos, Kamprad, soci Stellantis e via andare.
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