Nel ricordo funebre di un paio di settimane fa erano settanta. Tutti giornalisti assassinati volontariamente dall'esercito di Israele, come gli abitanti della Striscia. Tsahal ne ha aggiunti quaranta al suo criminale tiro al bersaglio e ora il numero delle voci spezzate supera il centinaio. Centonove. E può non finire qui, perché scientemente il governo Netanyahu ha inserito nel piano di rioccupazione della Striscia lo sterminio di quanti più palestinesi sia possibile. In attesa della cacciata dell’intera popolazione, da deportare altrove, col consenso anche forzato di Paesi amici d’Israele quali Egitto e Giordania. Le cui eventuali ritrosie verranno ammorbidite dalla diplomazia statunitense che osserva, ammonisce e di fatto lascia fare al premier sionista ciò che gli occorre per restare in sella. E dunque allungare sine die il massacro di civili (le vittime gazesi sono più di ventitremila) visto che dentro Israele nessuno può sgambettarlo, neppure le imploranti famiglie dei prigionieri trattenuti da Hamas che inscenano proteste dolorose e clamorose quanto inascoltate dal governo. In questo mattatoio - avviato secondo Netanyahu per “annientare Hamas” di cui lui stesso dichiara l’uccisione di ottomila miliziani accanto all’esecuzione d’importanti leader politici e militari all’estero - far scorrere il sangue di chi racconta la criminale guerra israeliana, è l’ennesimo obiettivo da perseguire. Tirando addosso - non importa se col fucile del militare-cecchino, col missile del raid aereo o con l’ordigno del drone - al cronista palestinese che sta fra la sua gente e ne descrive la mattanza. Cosa che a Sabra e Shatila risultò impossibile, gli scrivani entrati giorni e giorni dopo il massacro coglievano il puzzo dei poveri cadaveri fra i mosconi che ronzavano sopra, ma mai poterono dire con certezza chi aveva sgozzato e mitragliato. Falangisti di Hobeika, militari di Sharon, tutte ipotesi che restituirono costoro agli anni successivi alla strage. Impunemente impuniti.
L’attuale tecnologia rende più semplice un resoconto, perché anche un cellulare può filmare, registrare, elaborare un testo minimo da spedire via etere a un’emittente che lo diffonde. Basta poterlo realizzare. L’esercito d’Israele ha l’ordine di non fare prigionieri fra chi è impegnato a testimoniare quel che accade sotto il fuoco con cui sta “purificando” la terra che intende rioccupare. Stabilmente, con le armi in pugno, come del resto fa in Cisgiordania e non ora ch’è riesplosa la crisi. Così i giornalisti palestinesi, la totalità dei cronisti che stanno raccontando Gaza da Gaza, diventano bersagli. La loro eliminazione se sarà celebrata con un martirologio da parenti, amici, lettori e spettatori di qualche emittente nota, Al Jazeera soprattutto, non lascerà strascichi. Anzi farà avanzare la versione univoca dell’operazione anti Hamas, che è quella di Netanyahu e del Biden che gli tiene bordone poiché le elezioni del prossimo novembre sono dietro l’angolo e il voto degli ebrei d’America risulta prezioso per il candidato democratico claudicante in ogni senso. E’ vero che qualcosa di quanto accade nella Striscia è testimoniato da altri giornalisti, che per incolumità sono nei pressi e non diventano esplicito bersaglio anche perché un loro decesso creerebbe, forse e ancora forse, qualche problema pure all’insolente diplomazia di Tel Aviv. Il cui governo prosegue imperterrito i suoi interessi: applicare la legge della forza sul terreno d’una guerra senza regole; sostenerla in politica interna al cospetto dei propri elettori guerrafondai; giustificarla in campo internazionale con la logica secolare del popolo perseguitato e quella dello Stato aggredito che si “difende”; informare a senso unico contro lo stesso pluralismo mediatico che sostiene di garantire; adattare cronaca e storia recente alla propria volontà di cancellazione di soggetti altrui. Cosicché i giornalisti, principalmente se palestinesi, e gli storici sono di troppo. Senza pensieri, un colpo dal drone e via.
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