lunedì 8 maggio 2023

Turchia al bivio: l’uomo forte o …

 


Il matrimonio celebrato col cosiddetto “Tavolo dei sei” Kılıçdaroğlu, Aksner, Babacan, Davotoğlu, Karamollaoğlu, Uysal con l’aggiunta del gradimento del vertice del Partito Democratico dei Popoli, fra quel che resta in libertà e i parlamentari reclusi come Demirtaş, dà nelle stime un 44%, superiore al 42% attribuito all’alleanza fra Partito della Giustizia e Sviluppo e Movimento nazionalista. Il 15 maggio, dunque, la Turchia potrebbe cambiare volto, quello che il kemalismo laicista più o meno di sinistra, ha già vissuto nelle fasi, peraltro travagliate dei governi Ecevit. E’ un rischio che a casa dell’Akp hanno messo in conto già da un quadriennio, quando il partito ha perso d’un colpo i municipi delle città più in vista: Istanbul, Ankara, Izmir, Adana, Antalya che messe assieme fanno più d’un terzo della popolazione nazionale. L’attuale leader repubblicano s‘è impuntato affinché fosse lui a sfidare personalmente Erdoğan e a rappresentare l’opposizione e la voglia di cambiamento del Paese. Una sortita apparsa un deprezzamento dei gioielli di partito vincitori appunto nelle amministrative del 2019 sul Bosforo e nella capitale. Ma non c’è stato niente da fare. Inesorabilmente İmamoğlu e Yavaş, che quelle due metropoli guidano da un quadriennio, sono stati relegati al ruolo di comprimari. Lo affiancano nelle foto di rito, sicuramente dialogano col capo, però restano in seconda fila perché così ha disposto l’alevita. Che è scaltro, esperto di scienze economiche e commerciali, ma non proprio carismatico. Entrato in politica in età matura, guida un partito non facile da condurre per i trascorsi con un passato storico e negli ultimi tre decenni in aperto contrasto con quell’Islam politico cui Erdoğan ha offerto volto, cuore e un personalismo smisurato. Eppure Kılıçdaroğlu si sta spendendo bene nell’attuale campagna elettorale su entrambi i fronti che potrebbero fruttargli la vittoria del secolo, l’età stessa della Turchia moderna del cui padre porta il nome. Qualche voce raccolta fra la generazione erdoğaniana, cioè nata nell’ultimo ventennio, che fuori dai luoghi di stretta osservanza islamica e conservatrice non voterà mai e poi mai né il “sultano” né il suo partito, alcuni dubbi serpeggiano. 

 

 

Aişe, universitaria ventunenne, famiglia islamica e assai numerosa, non segue le orme di genitori e fratelli. E’ laica, disincantata, orgogliosamente vicina al mondo Lgbtq e ha deciso di non votare perché pur vivendo non in qualche villaggio anatolico ma nella dinamica metropoli del Bosforo, non vede nel ceto repubblicano un orizzonte alternativo. Non solo per i diritti civili, di genere e individuali, ma per la stessa economia. Giudica le premesse del “Sana söz” non promesse, bensì mera propaganda. Poi c’è chi ha incontrato di persona il sindaco İmamoğlu, personaggio per bene però, a giudizio di chi parla, ingessato e burocratico. Un uomo d’apparato. Magari chi risponde è di quelli che sui tabelloni del Sana söz verga con la bomboletta spray un irriverente invito a essere freak, dunque strani, diversi, informali. L’esatto contrario di quanto certi politici  d’opposizione sono nella vita, anche quando dismettono gli abiti istituzionali. I politologi si domandano quanti voti della gioventù libertaria potrà intercettare il “Tavolo dei sei”. Sicuramente disincantata e dispersa oltreché repressa è l’onda del Gezi park, il movimento che giusto un decennio addietro creò problemi e apprensioni alla gestione governativa di Erdoğan. I tre mesi estivi (giugno, luglio e agosto) del 2013 rappresentarono l’incubo del progetto politico dell’Akp che pareva messo all’angolo da una protesta crescente. Dal sit-in d’una cinquantina d’ambientalisti che volevano salvare gli alberi del giardino dallo sradicamento previsto dalla ristrutturazione dell’area, partirono cortei di decine di migliaia di persone che infiammarono Istanbul e si diffusero in altre località. Undici vittime, cinquemila arresti, e migliaia di fermati e intossicati ruppero l’idillio fra la generazione nata sotto quello che viene considerato un regime e l’ispiratore del progetto. Nei dieci anni seguenti di vicende interne e internazionali ne sono accadute a decine, se non a centinaia. Però il sistema erdoğaniano ha resistito.  S’è incupito con conflitti riaperti con la comunità kurda, con cui il premier aveva dialogato, ha trovato sostegno per l’assolutismo presidenzialista nell’anima nera della nazione: il partito dei ‘Lupi grigi’ che ora non uccide più i comunisti né attenta ai pontefici del soglio di Pietro, ma esalta la patria nell’essenza più nazionalista e militarista possibile, nostalgica forse dei trascorsi golpe. 

 

Ciò nonostante questi ragazzi vivaci e vivi come il nome che portano, questo vuol di Aişe in turco, non sono conquistati da un progetto alternativo che resta fumoso e sul delicato tema della libertà - di parola, di riunione, di manifestazione - trova una coalizione riunita attorno ad ex erdoğaniani e una lupa grigia e non vede spazi libertari. Emblematico il recente 1° maggio nella piazza simbolo d’Istanbul: Taksim. Dal giorno precedente non solo l’area attorno allo storico monumento della Repubblica, ma la zona dov’è sorta la contestata moschea del 2013 e tutto il giardino di Gezi park erano transennati e presidiati da centinaia di agenti antisommossa. Non basta. Il percorso della celebre İstiklal Caddesi e tutte le traverse contigue lungo i quartieri di Tarlabasi e Kasimpaşa da una parte e Çukurcuma, Cihangir sul lato opposto fino al limite della torre di Galata, sono stati chiusi fino al primo pomeriggio a chiunque: turisti e in molti casi pure residenti. Un blocco totale per impedire qualsiasi raduno di lavoratori e sindacati. Ne sono rimasti scontenti migliaia di turisti che affollavano la città e pure i negozianti del luogo per eccellenza dello struscio e degli acquisti. Ovviamente le misure erano prese dal ministro dell’Interno Soylu che risponde alla coalizione Akp-Mhp, oltreché a Erdoğan. E che venivano giustificate dal rischio di attentati (a metà novembre una donna, bollata come terrorista, aveva fatto brillare un sacco esplosivo provocando morti e feriti), ma perché chiudere solo quel giorno? Comunque, fa notare qualcuno dei lettori illuminati in libreria, la municipalità repubblicana retta da İmamoğlu non ha fornito chessò una sala, un luogo pubblico dove far convergere una rappresentanza dei lavoratori. Nulla, come se niente fosse. E lo sparuto gruppetto di coraggiosi operatori sanitari che per un minuto, di meno e non di più, ha dispiegato uno striscione che annunciava un fronte popolare della sanità, è finito strattonato e portato via su un blindato che affiancava i manipoli di agenti e gli idranti-corazzati disseminati attorno alla piazza. La Turchia dalla democrazia soffocata deve fare i conti con questo panorama.

 

 



3 - continua

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