venerdì 5 maggio 2023

Istanbul, la megalopoli che Erdoğan vuole riconquistare

 

Quanta innocenza s’aggiri oggi fra i vicoli di Çukurcuma, che pure celano come in uno scrigno il Museo  del cantore dei polverosi rifugi d’amore fino ai quartieri-bene di Maçka e Nişantaşi, è difficile immaginare. Com’è impossibile incrociare, se non in sogno o in sbiaditi ritratti in bianco e nero, le gecekondular, case costruite in una notte, tanto comuni non solo al confine degli anni Cinquanta-Sessanta forieri del primo golpe, ma fino alle soglie del Nuovo Millennio. Erano dappertutto, perfino sotto Nişantaşi e sfioravano il cuore della vecchia Pera trasformata in Beyoğlu, Bey Oğlu che vuol dire figlio del signore. Questo distretto della città millenaria ha inglobato Karaköy, Tophane, Cihangir, Şişhane oggi enormi estensioni turistiche o dimore di tendenza, e Tarlabaşi e Kasımpaşa che conservano tratti popolari. Beyoğlu ha inglobato molto altro, sino a diventare una città nella metropoli. Lo sconfinato municipio di Istanbul perde solo in parte l’essenza della nazione turca per assumere il volto della megalopoli globalizzata. Certo è che un anno via l’altro nell’ultimo decennio un’area vasta quasi cento chilometri quadrati, cinquanta in territorio europeo, cinquanta in quello asiatico ha registrato i colpi a effetto con un calciatore proprio di Kasımpaşa diventato sindaco e leader politico, poi premier e presidente ha lastricato l’appuntamento che giunge a scadenza: le elezioni del centenario. Un ponte esse stesse, l’ennesimo, fra la Turchia laicizzata di Atatürk e la Turchia del nuovo padre, islamica, futuribile, potentemente geopoliticizzata così da mettere in fila nazioni un tempo blasonate ma ingiallite nell’acquisita marginalità del proprio ruolo.  La scadenza del 14 maggio precede di cinque mesi l’anniversario secolare del 29 ottobre, nell’anno in cui il dominus che punta a un ennesimo mandato non ha ancora toccato quota settanta d’età. Eppure l’eccitazione di quest’ennesima corsa sembra offrire una carica per la terza gioventù e in pochi giorni smentisce le voci, chissà perché cinesi, d’un infarto, proponendosi umanamente con la debolezza di un’influenza intestinale, superata a suon di comizi che s’inseguono un giorno dopo l’altro a ritmi incalzanti.

 


Ora che l’inflazione, salita anche all’80%, resta ad altissima doppia cifra (50-60%) e mangia la forza economica di tutti: lavoratori dei manufatti e della manodopera semplice che non è scomparsa e ne beneficiano giardini e igiene pubblica, impiegati, mercanti finanche il ceto d’impresa e i tanti,  tantissimi poliziotti che sotto ogni spoglia circolano ovunque. Ora che quella salita in cielo dei proletari ancora vent’anni fa inurbati nelle ‘casette della notte’ per risparmiare le benedette lire necessarie all’acquisto d’una casa decorosa sembra non potersi ripetere, ci si domanda chi può sostenere la voglia di potere di Erdoğan. Il suo mix di emancipazione economica sulle ali del liberismo, già avviato da Turgut Özal, trovava la radice identitaria della fede nella patria e nella patria islamica. Gli hanno creduto a milioni quando il modello di Giustizia e Sviluppo materializzato in partito volava: nel 2002 con 10 milioni di consensi e 363 seggi nel Meclis; oltre 16 milioni e 341 nel 2007; addirittura 21 milioni e 327 deputati nel 2011; 18 milioni di voti seppur con eletti in ribasso (258) nel 2015; 21 milioni e 295 seggi nel 2018. Una marcia continua, sebbene i trionfi non siano stati sempre crescenti, costanti sì, pur in un vortice di problemi.  Socio-politici interni, basti pensare alla ribellione antagonista nell’angolo verde di Istanbul denominato Gazi Park che in questi anni ha ricevuto un maquillage conforme alla città che cambia, seguito al blocco del dialogo e della soluzione (çözüm) col movimento kurdo sino alla repressione nelle province orientali che rievocava la guerra civile strisciante degli anni Ottanta. E lo scontro fratricida col movimento gülenista, accusato del tentato golpe del luglio 2016, le rotture con personaggi di primo piano della casa e del progetto comune (Gül, Davutoğlu, Babacan) alcuni dei quali corrono contro quell’uomo e quel partito che hanno servito a lungo. Infine la pesantezza della crisi monetaria e la follìa d’una linea sull’inflazione che l’ortodossia finanziaria giudica suicida, ma il presidente che fa combaciare passato e futuro considera giusta e santa come la fede che l’ispira.

 

Respira tutto questo quel simbolo vivo della patria turca che è Istanbul, lo fa barcamenandosi fra le novità infrastrutturali che sfoggia con l’orgoglio del fare e che concittadini, turisti e affaristi attraversano a milioni ogni giorno, atterrando e decollando dall’Istanbul Havalimani Airport (77 milioni di mq e un traffico aereo che, al di là della decina di scali statunitensi e della coppia dei cinesi  Canton e Sichuan, morde le piste della stessa Delhi). Salendo e scendendo sui traghetti delle sponde e infilandosi nel Marmaray, il treno subacqueo che unisce Europa e Asia. O aspettando il visionario raddoppio del Bosforo con Istanbul Kanal, pianificato per il 2028, con 45 km per 400 metri di larghezza e 25 di profondità che potrà veder transitare 150 navi al giorno tutte pagatrici di pedaggio, a differenza di quanto accade nell’attuale transito da e per il Mar Nero. Con questo dazio, dice la propaganda governativa, lo Stato incasserà e sgraverà da imposte i cittadini ai quali si potranno continuare a offrire stadi e moschee. I primi sono cinque, come le squadre di calcio cittadine in Süper Lig, le moschee tremila e raccontano le storie d’una Storia sedimentata nei secoli. Poi ci sono metrò, ponti e costruzioni che vent’anni fa non esistevano e che i quindici milioni di istanbulioti apprezzano, soprattutto se antisismici. La regina dell’edificazione interna Toplu Konut İdaresi Başkanlığı - Toki nell’acronimia vigente - che ha le mani in pasta in tante di queste opere, s’è ultimamente vantata di aver lasciato con le fondamenta ben piantate 130.000 edifici da lei costruiti, rimasti intonsi il 6 febbraio davanti alla terra che si spaccava e a tante case che si sbriciolavano o collassavano. Amara consolazione per un dramma da cinquantamila vittime e un governo che deve correre ai ripari per restituire alloggio a 1.5 milioni di persone, a un costo che sfiora i 100 miliardi di dollari mentre la comunità internazionale finora ne ha elargito uno soltanto d’aiuto. La promessa elettorale del presidente è stata estrema: tutti avranno un tetto entro un anno. Chi ci crede lo vota e ipoteca il futuro per un quinquennio a meno d’imprevisti  smottamenti politici. 






        1 - continua

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