Corrono verso la morte.
Cos’altro possono fare il ventunenne Mohammad, due Ahmed, uno 27 l’altro 17
anni, Afifi 18 e altri giovani, ammazzati ieri in sette, bersaglio fisso e
mobile dell’esercito israeliano sul confine di Gaza? Cosa possono fare quei
giovani uomini e donne sui quali si scaricano pallottole dal 30 marzo scorso e
hanno visto distesi duecentoquattro cadaveri di fratelli e sorelle. E migliaia,
migliaia di feriti. Ogni venerdì una mattanza giustificata dai killer con
ordini precisi, dagli statisti d’uno Stato criminale un’autodifesa a difesa del
diritto di assassinare i palestinesi. Cosa può fare questa gente abbandonata,
frustrata, derisa dal mondo che guarda altrove, ai suoi tanti drammi certo, ma
lasciando alla deriva tal’altra tragedia diventata crimine perpetuo da
settant’anni. Cosa possono fare le giovani vittime di reiterate negazioni del
diritto a vivere coi propri cari e lavorare e studiare nei luoghi secolari abitati
dalla propria gente. La protesta bersagliata dal piombo di Tsahal questo dice:
diritto al ritorno nelle terre dei padri per i rifugiati ammassati da decenni
nei campi profughi del Medio Oriente.
E da mesi, ogni venerdì,
sul confine della Striscia si ripete il macabro rituale del sanguinario tiro al
bersaglio su quella richiesta di ragione violata. Un privilegio che Israele
reclama per sé, introducendo coloni che nulla hanno a che fare con quella terra
poiché i loro avi hanno vissuto altrove, da secoli. E anche la proposta di far convivere
accanto gli uni e agli altri, con simili regole, seppur in condizioni
socio-economiche diverse, viene rifiutata per princìpio dai governi di Tel Aviv
che applicano da decenni il piano di cancellazione di Palestina e palestinesi. A
loro non viene concesso nient’altro che emarginazione e oppressione, mentre i
potenti amici di Israele cantano cinicamente una litania di morte. Eppure quei
gazawi su cui Israele spara, corrono per la vita. Il loro agitarsi, urlare,
bruciare copertoni, sventolare stendardi parla di futuro che possono garantirsi
solo rivendicando l’uscita dall’apartheid proposta e praticata dal sionismo
pratica come modello di sistema. Sono ragazzi della vita, non giovani kamikaze
che si danno la morte per una guerra santa. Eppure muoiono anch’essi. Ma
muoiono per la mano d’un boia capace di piegare il senso di giustizia alla sua
volontà di potenza politica, religiosa, razziale.
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