Perdere il responsabile della sicurezza del sud dell’Afghanistan
è un segno di grande debolezza per il governo che va alle elezioni fra due
giorni. I talebani, ortodossi o dissidenti, hanno compiuto quest’azione per
esaltare una crisi palese già evidente da anni. L’ammette anche il segretario
alla Difesa statunitense Mattis che intervenendo sull’omicidio eccellente
chiosa che la morte del generale Raziq “è
una tragica perdita”.
Quest’uccisione fa calare la maschera all’essenza stessa del Resolut support, la presenza militare di
sostegno ai fantocci politici di Kabul voluta da Washington e praticata dagli
alleati Nati, fra cui spiccano i governi romani d’ogni colore (continuiamo ad avere
in loco 893 costosi “consiglieri” alla difesa). Ma tutti questi addestratori,
preparatori, tecnici militari e ufficiali non riescono a difendere gli stessi
capi delle strutture della forza del Paese occupato, visto il modo in cui Raziq
è stato ucciso.
In un compound “segreto” a Kandahar dove stava incontrando
nientemeno che il comandante dell’Intelligence locale, una guardia del corpo ha
sparato a entrambi freddandoli. Non si è trattato d’una momentanea follìa
dell’uomo di scorta, ma di una infiltrazione giunta a buon fine da parte di
quei talebani, tendenzialmente ortodossi, che controllano gran parte della
provincia. Oltre a stabilire le gerarchie di chi comanda in quella e altre zone
i taliban, che non hanno rinunciato al tavolo di trattative lanciato nei mesi
scorsi dagli Stati Uniti, sottolineano la facilità con cui possono ricorrere ad
agguati distruttivi per poi farli pesare politicamente. Fa parte del messaggio
anche il mancato coinvolgimento in quest’attentato del generale statunitense
Miller, rimasto illeso al fianco dei due bersagli, pensiamo non certo per
casualità, bensì per scelta così da poter ribadire al suo Paese una condizione
essenziale per le trattative di pace: la fine dell’occupazione straniera.
Il generale Raziq era conosciuto come “capo torturatore di Kandahar”.
Odiato da talebani, di cui era acerrimo nemico, e anche da tanta popolazione
sottoposta a rapimenti e sevizie perché accusata d’essere un sostegno per
l’insorgenza. Era invece lodato come un patriota - e non solo ora ch’è morto -
dai leader politici degli ultimi anni (Karzai e Ghani), dal comando Nato e da
vari direttori della Cia. Di certo gli addestramenti particolari che l’Intelligence
statunitense impartisce alla polizia afghana, avevano trovato nel pashtun che
girava le spalle alla sua etnìa un interprete molto zelante. La ferocia con cui
Raziq aveva agito in svariate occasioni faceva di lui un soggetto venerato dai
suoi reparti, temuto dalla gente, odiato dai turbanti. Esisteva anche una
narrativa attorno ai molteplici attentati (si parlava di trenta) cui era
scampato. Alcuni commentatori, evidenziando il ruolo duramente critico avuto
dalla vittima coi vertici pakistani, che accusava d’ingerenza nelle vicende
afghane, lanciano l’ipotesi che a decidere la sua sorte sia stata l’Isi
pakistana. Un risvolto tutt’altro che nuovo negli oscuri meandri creati dalle
agenzie in tutta la regione.
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