venerdì 19 ottobre 2018

Afghanistan, a due giorni dal voto i talebani eliminano il loro torturatore


Perdere il responsabile della sicurezza del sud dell’Afghanistan è un segno di grande debolezza per il governo che va alle elezioni fra due giorni. I talebani, ortodossi o dissidenti, hanno compiuto quest’azione per esaltare una crisi palese già evidente da anni. L’ammette anche il segretario alla Difesa statunitense Mattis che intervenendo sull’omicidio eccellente chiosa che la morte del generale Raziq “è una tragica perdita”.  Quest’uccisione fa calare la maschera all’essenza stessa del Resolut support, la presenza militare di sostegno ai fantocci politici di Kabul voluta da Washington e praticata dagli alleati Nati, fra cui spiccano i governi romani d’ogni colore (continuiamo ad avere in loco 893 costosi “consiglieri” alla difesa). Ma tutti questi addestratori, preparatori, tecnici militari e ufficiali non riescono a difendere gli stessi capi delle strutture della forza del Paese occupato, visto il modo in cui Raziq è stato ucciso.

In un compound “segreto” a Kandahar dove stava incontrando nientemeno che il comandante dell’Intelligence locale, una guardia del corpo ha sparato a entrambi freddandoli. Non si è trattato d’una momentanea follìa dell’uomo di scorta, ma di una infiltrazione giunta a buon fine da parte di quei talebani, tendenzialmente ortodossi, che controllano gran parte della provincia. Oltre a stabilire le gerarchie di chi comanda in quella e altre zone i taliban, che non hanno rinunciato al tavolo di trattative lanciato nei mesi scorsi dagli Stati Uniti, sottolineano la facilità con cui possono ricorrere ad agguati distruttivi per poi farli pesare politicamente. Fa parte del messaggio anche il mancato coinvolgimento in quest’attentato del generale statunitense Miller, rimasto illeso al fianco dei due bersagli, pensiamo non certo per casualità, bensì per scelta così da poter ribadire al suo Paese una condizione essenziale per le trattative di pace: la fine dell’occupazione straniera.

Il generale Raziq era conosciuto come “capo torturatore di Kandahar”. Odiato da talebani, di cui era acerrimo nemico, e anche da tanta popolazione sottoposta a rapimenti e sevizie perché accusata d’essere un sostegno per l’insorgenza. Era invece lodato come un patriota - e non solo ora ch’è morto - dai leader politici degli ultimi anni (Karzai e Ghani), dal comando Nato e da vari direttori della Cia. Di certo gli addestramenti particolari che l’Intelligence statunitense impartisce alla polizia afghana, avevano trovato nel pashtun che girava le spalle alla sua etnìa un interprete molto zelante. La ferocia con cui Raziq aveva agito in svariate occasioni faceva di lui un soggetto venerato dai suoi reparti, temuto dalla gente, odiato dai turbanti. Esisteva anche una narrativa attorno ai molteplici attentati (si parlava di trenta) cui era scampato. Alcuni commentatori, evidenziando il ruolo duramente critico avuto dalla vittima coi vertici pakistani, che accusava d’ingerenza nelle vicende afghane, lanciano l’ipotesi che a decidere la sua sorte sia stata l’Isi pakistana. Un risvolto tutt’altro che nuovo negli oscuri meandri creati dalle agenzie in tutta la regione.

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