Sospetti e ipotesi tante, prove però nessuna. Così il giallo
attorno alla fine di Jamal Khashoggi resta sospeso fra illazioni e accuse,
smentite e rassicurazioni. Tutte di parte, e tutte sostenute da una volontà
politica. In seguito della sparizione del commentatore del Washington Post, preventivamente uscito dal suo Paese per non
incorrere in qualche azione repressiva dovuta alle reiterate critiche al metodo
di Mohammad bin Salman, è aumentato il numero di proteste anti saudite.
Nuovamente a Istanbul sotto il consolato-antro che ha inghiottito Khashoggi, si
sono riuniti manifestanti con la presenza di volti noti dell’impegno per i
diritti umani, spiccavano quelli della yemenita premio Nobel per la pace 2011,
Tawakkol Karman e del dissidente egiziano Ayman Nour. In più sulla stampa
internazionale sono riportate le testimonianze di molti sauditi, già repressi
all’epoca della primavera 2011, finiti in galera o se, facilitati da una
corposa possibilità economica, riparati all’estero. Alcuni casi di dissidenza
sono noti, iniziati prima dell’avvento di MbS e comunque proseguiti nell’ultimo
biennio con una metodica degna della peggior coercizione oggi sulla scena
mediorientale.
Un termine di riferimento è l’Egitto di al-Sisi, e con la
capacità di celare i misfatti tramite l’occultamento delle notizie e azioni più
che palesemente poliziesche, affidate ai sotterfugi di un’Intelligence che
agisce nell’ombra. Il clima di terrore, lo conferma chi ha concesso interviste
pubblicate su New York Times, The Guardian, Le Monde raccontando la propria esperienza, produce omertà e paura.
“Incontrando all’estero altri sauditi
difficilmente si parla, perché sotto la kefia o dietro la cravatta del
businessman può nascondersi una microspia”. Questo clima s’accompagna alla
propaganda liberale, modernista del principe che agisce da re, che si fa bello
d’un progetto sbandierato ai quattro venti con l’enfasi del caso: permesso di
guida alle donne, consenso offerto al genere femminile di frequentare spettacoli
cinematografici e manifestazioni sportive. Una Rivoluzione dei costumi. Tutto contro
la mentalità iper tradizionalista del salafismo wahabbita ben radicato nel
Paese, comunque protetto e finanziato da innumerevoli attività finanziarie di
privati e dello stesso Stato.
Il modernismo che bin Salaman afferma di lanciare
contro il fondamentalismo di casa, di fatto non sfiora madrase e predicatori
estremisti. Lo stesso ‘armarsi di più e
meglio’ (nel 2017 l’Arabia Saudita è al terzo posto nella graduatoria mondiale
dopo Usa e Cina) sostenuto dal principe per combattere il terrorismo, si
traduce nell’alimentare guerre locali come quella contro i ribelli yemeniti.
Non risulta che ci siano stati, né ci siano, interventi repressivi contro
quelle cellule jihadiste presenti in questi anni nella penisola araba. La
"sicurezza" interna viene perseguita, appunto, censurando il pensiero critico verso
i modi passati e i progetti presenti del clan Saud, peraltro colpito da lotte
intestine, intrighi e purghe. Come noti raìs mediorientali - coronati, laici e
religiosi - MbS insegue una politica accentratrice, autoritaria,
personalistica. Utilizza il doppio binario d’una pseudo liberalizzazione dei
costumi, per conservare un potere classista profondamente antidemocratico. E
chi critica può sparire senza lasciare tracce. Come Khashoggi.
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