All’amore mai sbocciato
fra l’amministrazione Trump e il cangiante vertice pakistano - passato dal capo
del governo incarcerato Nawaz Sharif della Lega Musulmana, al rampante neo premier
Khan del Pakistan Tehreek-e Insaf - sono seguite le vendette economiche
americane. La Casa Bianca ha decurtato e continua a farlo (gli ultimi tagli
ammontano a 300 milioni di dollari) svariati fondi all’importante alleato del
Grande Medio Oriente, reo di non sostenere a dovere il piano regionale statunitense.
Un piano in verità altalenante, spesso latitante, che conserva come unica costanza
la vendita di armi ai soci. Una vendita mascherata da appoggio economico, di
fatto un sostegno al programma geostrategico del Pentagono. Certo il Pakistan,
Paese islamico popolatissimo e denso di contraddizioni interne, ci mette del
suo quando sancisce accordi senza mantenerli, così se l’interlocutore è un peso
massimo della politica mondiale, presunti “sgarbi” diventano roventi.
La realtà pakistana è variegata,
contrassegnata da contrasti sanguinosi fra i partiti o fra poteri forti come
sono l’esercito e l’Intelligence locale, da un nazionalismo desideroso di
primeggiare al cospetto di competitori altrettanto determinati (Iran, Arabia
Saudita, Turchia), dal magma talebano ribollente che s’autoalimenta nelle aree
tribali denominate Fata. Proprio la questione talebana coinvolge l’establishment
del Paese, che nella campagna elettorale
dello scorso luglio ha essa stessa ricevuto colpi da turbanti irriducibili come
i Tehreek-e Taliban, persecutori di avversari politici e di semplici cittadini
sventrati da kamikaze suicidi. Le misure
antiterroristiche riescono a frenare solo in parte l’ostinazione omicida di
talune frange fondamentaliste con cui settori dell’Inter-Services Intelligence
familiarizzano e si scambiano detonanti favori. Ma quando gli Stati Uniti, in
più occasioni sostenitori e difensori di queste losche ambiguità, accusano
Islamabad d’incoerenza, ecco che pure gli ultimi rappresentati del potere, come
il neo ministro degli Esteri pakistano Qureshi, alzano la guardia.
Lui dice che il suo
Paese lavora per la pace regionale, non protegge la destabilizzazione, opera
per una normalizzazione del vicino Afghanistan e una cooperazione con esso.
Questa posizione, l’ha ribadita in un recente viaggio a Kabul, forse convincendo
il locale presidente Ghani, tutto preso nella campagna di offrire
all’Afghanistan una maschera di democrazia, non lo staff trumpiano.
Quest’ultimo parla fuori dai denti esclude buone maniere, ordina e trae
conclusioni che se non si confanno ai propri disegni assumono i drastici
contorni della sfida. E ora fra Washington e Islamabad l’aria è pesante. Intanto
oltre confine, nelle province afghane che predispongono i seggi, chi lavora
sulla conservazione di tensione e terrore prosegue l’opera. E’ di oggi
pomeriggio l’ennesimo attentato dissuasivo nei confronti d’una partecipazione elettorale:
13 morti, 30 feriti a Kama nella provincia del Nangarhar, area orientale, del
Paese. Un’altra zona dove chi vota mette a repentaglio l’incolumità.
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