venerdì 12 ottobre 2018

Caso Khashoggi, la forza delle spie


Il mistero criminale di cui è vittima l’opinionista saudita del Washington Post, Jamal Khashoggi appare come un’aperta sfida di Intelligence, oltreché ormai come elemento di tensione regionale. Ieri proprio la testata statunitense che ospitava le valutazioni critiche di Khashoggi sui regnanti del suo Paese ha rivelato di aver ricevuto testimonianze sonore e visive dell’agguato teso al giornalista. Egualmente Al Jazeera ha ricevuto quel materiale da soggetti informati della vicenda che possiamo supporre trattarsi di agenti sauditi doppiogiochisti oppure del lavoro di spionaggio svolto da cimici e microcamere installate in loco dal Mıt erdoğaniano per controllare i concorrenti mediorientali. Così nelle registrazioni si riferiscono ‘voci concitate, urla strazianti’, con uno scenario più da mattanza mafiosa che da poliziesco classico. E comunque ciò fornisce un solido elemento a quella che finora era solo un’ipotesi avanzata da oppositori di bin Salman, sulla tendenza principesca di far eliminare fisicamente soggetti a lui sgraditi. Del resto, da oltre un anno, questa è diventata assai più d’una diceria.
Diversi cittadini sauditi sono scomparsi o svaniti nel nulla, e il principe saudita Khaled bin Farhan, riparato in Germania per garantirsi l’incolumità, ha rivelato di non aver mai accolto gli inviti rivoltigli dalle autorità saudite di recarsi al Cairo, neppure quando lo allettavano col ritiro di assegni a suo favore. Temeva per la sua vita. Ovviamente queste rivelazioni esplicite e, ancor più, la documentazione in mano ai Servizi turchi, rimasti inizialmente in attesa, mostrando sulla vicenda quasi un’acquiescenza alla vaghezza negazionista di Riyadh, stanno ora creando problemi alla corona Saud. Proprio da parte statunitense c’è una reazione caratterizzata da abbandoni di contratti pubblicitari di aziende legate all’informazione. Così il gruppo britannico Virgin ha congelato un fondo d’investimento di un miliardo di dollari previsto in questa fase in Arabia Saudita. Bisognerà vedere come reagiranno le componenti a stelle e strisce con cui MbS stabiliva accordi per diversificare i finanziamenti, cercando alternative ai proventi derivati dagli idrocarburi. Dunque Wall Street, Silicon Valley, Hollywood.
Più in difficoltà il pluri defezionato staff del presidente americano che, con gli incaricati che restano e i sostituti di licenziati, dimissionati e costretti al ritiro, deve giustificare non tanto la folkloristica “danza delle spade” della primavera 2017 di Trump a Riyadh, ma i benestare interni e regionali a ogni mossa del principe Saud, anche quelle doppiste e torbide. Con l’uscita allo scoperto della Turchia, nazione dove la sparizione è avvenuta e il probabile assassinio compiuto, il rapporto già difficile fra due megalomani del potere in Medio Oriente (MbS ed Erdoğan) può prendere la piega peggiore. Il giovane, ben prima dell’incoronazione, si dimostra addirittura più umorale, inaffidabile, invasivo del politico che ha impiegato 15 anni per plasmare a suo piacimento la Turchia. Eppure osservatori economici sostengono che sarà la fase economica e gli interessi di entrambi ad attenuare i furori dei due competitori. Il reciproco bisogno di ricevere (la Turchia) e far fruttare i capitali (l’Arabia Saudita) possono attenuare le divergenze, anche quelle conosciute nell’ultimo decennio. Con Erdoğan, a suo dire, tutore della spinta rinnovatrice della piazza islamica e bin Salman repressore di ribellioni in Yemen e di spinte democratiche interne, seppure col contentino d’una “visione riformatrice” dello Stato. Anch’essa a piacimento, il suo.

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