Ha viaggiato per una dozzina di giorni attraverso
Afghanistan, Pakistan, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Qatar Zalmay Khalizad,
l’uomo che il presidente americano Trump ha nominato da una quarantina di
giorni suo inviato speciale per l’Afghanistan. Ora, a Doha, ha avuto il primo
incontro coi Talebani, che dall’estate scorsa hanno incontrato una delegazione
statunitense. Le due sponde discorrono attorno a possibili accordi di pace, quel
piano che il presidente afghano Ghani fa suo da mesi rivendendolo nelle
elezioni in scadenza del prossimo 20 ottobre. In alcuni distretti si sta già
votando, in altri è impossibile farlo o comunque pericoloso. Venerdì a Takhar (120
km est da Kunduz) la zona circostante a un seggio è stata oggetto d’un
attentato che ha ucciso 14 persone e ferito oltre trenta. E’ il quarto della
serie, stragi compiute non dai talebani colloquianti, ma da coloro che dissentono
dalla linea tenuta a Quetta, parlano di Califfato e duettano col Daesh
firmandosi Isis afghano. I turbanti ortodossi, nonostante i ripetuti inviti
governativi a entrare nel governo e in Parlamento, boicottano la consultazione
elettorale, però non attuano la linea aggressiva tenuta altrove. La linea del
controllo del territorio che in tante occasioni li ha spinti ad attaccare
l’esercito nazionale, fuori e dentro le caserme, tanto per mostrarne
inefficienza e palesi limiti organizzativi ed esecutivi.
Infatti a Ghazni, nella settimana di fuoco dello scorso agosto, la
forza talebana ha umiliato l’Afghan National Army, sebbene quest’ultimo la
sopravanzasse numericamente. Per l’ennesima volta sono stati i marines a
salvare gli alleati in divisa e tale fattore, assieme al controllo totale di
sette, otto province, e parziale di un’altra decina, convince diversi capi
talib di poter riprendersi Kabul, non solo per attentati o azioni dimostrative.
Comunque una componente talebana non esclude i colloqui. Ha solo finora posto
un’unica condizione: ritiro delle truppe Nato, che significa un proprio dominio
assoluto su ogni provincia afghana, visto la vaghezza delle forze armate
locali. Allora, se non ci sarà quell’abbandono del dialogo accaduto in altre
circostanze, ciò di cui si discuterà è chi e cosa resterà in terra afghana. I
passi di Ghani, suggeriti dal Pentagono prima ancora che dalla Casa Bianca,
propongono ai taliban l’ingresso in un’alleanza di governo, in cambio
chiederanno il mantenimento delle nove basi strategiche, create nei 17 anni
d’occupazione statunitense. Le basi degli F16, degli AC-130, dei droni che
decollano verso obiettivi diversi ma sempre portando morte e stabilendo
dominio. Mollare questo bene strategico è per ogni amministrazione statunitense
impossibile.
Non si tratta di posizioni democratiche, repubblicane o tantomeno
personali alla Trump, la natura strategica di Washington prevede presidio e controllo
in aree considerate strategiche, ovunque nel mondo. E nel Medio Oriente
profondo oggi misure e contromisure si sono addirittura accresciute rispetto al
2001. Allora torniamo a Khalilzad, un pashtun di Mazar-e Sharif, già
ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite durante l’era Bush jr, formatosi
in epoca dell’invasione sovietica al suo Paese alla Columbia University e già
nel 1985 funzionario per il Dipartimento di Stato americano. Questo per dire
che il diplomatico, oggi sessantasettenne, è un afghano fedelissimo alla
politica Usa che ha servito in varie epoche le più varie strategie attuate dallo
Studio Ovale. Tutto ciò non sfugge agli interlocutori in turbante, e seppure
dovessero non essere completamente aggiornati su curriculum e trascorsi,
saranno i concetti messi nero su bianco a confrontarsi. I taliban diranno: via
le truppe, la delegazione guidata da Khalilzad non cederà sulle basi. E’ qui il
nodo. Per il resto, e per Ghani stesso o chi lo dovesse rimpiazzare, i
fondamentalisti di Quetta potranno unirsi a quelli che già siedono nella Loya
Jirga.
Nessun commento:
Posta un commento