A meno d’un mese dalla
scadenza, fissata per il 20 ottobre, parte la campagna elettorale per i 249
seggi da assegnare alla Wolesi Jirga, la Camera bassa del Parlamento afghano.
Secondo la Commissione elettorale i 2500 candidati, fra cui 400 donne, possono
iniziare la propaganda. Lo fanno direttamente o con l’ausilio di sostenitori issando
cartelloni e affiggendo proprie immagini dov’è possibile, anche su muri di
edifici privati, talvolta entrando in conflitto coi proprietari. Per tale pratica
fuori da normative di legge, peraltro fumose, sono previste multe fino a
100.000 afghani. Multe simboliche più che onerose, visto che il massimo della quota
corrisponde a un euro e quattordici centesimi. I candidati più navigati tengono
anche pubbliche concioni, in genere in luoghi chiusi per ovvie ragioni di
sicurezza. I 5.100 seggi saranno vigilati da 55.000 militari, cui si potranno
aggiungere circa 10.000 riservisti.
Non è chiaro se alla
scadenza si voterà in tutte le province o verranno escluse quelle
controllate dai talebani, che non si sono fatti convincere dalle carezze
diplomatiche governative e guardano con spregio alla consultazione. Parecchi candidati
si rivolgono ai gruppi etnici, minoritari o meno, sebbene ce ne siano altri che
contestano quest’approccio, sottolineando la piena apertura a qualsiasi etnìa e
puntando sul concetto di nazione. C’è anche chi pone temi come il sostegno di
chi si occupa delle sicurezza, dunque l’Afghan National Army, attraverso la donazione
del sangue per i militari che pongono la vita al servizio del Paese. Nonostante
il populismo diffuso qualche vecchia volpe del logoro scenario politico mette i
piedi nel piatto, criticando Ghani e Abdullah e accusandoli di pensare alle
proprie tasche più che agli interessi del Paese. Tutto vero.
Ma un simile richiamo è
giunto da un personaggio screditatissimo come il signore della guerra Mohaqiq,
uno che di sopraffazioni e interessi soggettivi non è secondo ai criticati leader.
Costatare che c’è chi lavora per incrementare un clima divisivo, senza curarsi
dei reali problemi della popolazione, usata come sempre come alibi per potere e
affari, non è una novità. Capire se la propaganda normalizzatrice che si
trascina dietro la scadenza dell’urna possa risultare attendibile e veramente
rappresentativa costituisce un nodo irrisolto. In una delle province che
nell’agosto scorso ha messo a nudo non solo tale progetto, ma direttamente la
presunzione di controllo del governo sul Paese - Ghazni assediata e tenuta per
giorni dai taliban - le elezioni per ora non si terranno. L’ha stabilito la
Commissione che rimanda di quattro mesi (sì in pieno inverno, oppure a
primavera) sia le consultazioni politiche, sia quelle amministrative.
Lo spunto viene preso
per quel che accadde nelle elezioni locali nel 2010. Allora gli 11 vincitori
appartenevano tutti all’etnìa hazara assai consistente nell’area, che lasciò i
pashtun senza propri eletti. Questo creava squilibri. Così, per presente e futuro,
si penserebbe di equilibrare le rappresentanze con meccanismi elettorali tutti
da decidere. Più realistiche voci pensano, invece, che la cancellazione del
confronto in quella provincia serva a non offrire la possibilità alle milizie
talebane di sferrare attacchi ai seggi. Queste azioni finora sono state
appannaggio dei turbanti dissidenti che si firmano Daesh, ma ciò che teme Kabul
è un ripetersi dell’attacco che ha mostrato tutta l’incapacità militare del
governo, come e peggio dell’assedio di Kunduz nel 2015. Ora la chiusura dei
seggi a Ghazni è ufficiale, ma in quante altre province le urne resteranno
deserte o disertate per insicurezza? La macchina della “normalizzazione”
pompata da Ghani non ne parla.
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