Assumono il volto peggiore, ma assai diffuso in tanto Medio
Oriente, i nodi della lunga contraddizione libica. Bombe, agguati, mitragliamenti
con morti e feriti (finora limitati a quaranta e un centinaio) ma si teme una ricaduta
in quella guerra più per bande che civile, già scaturita dall’abbattimento di
Gheddafi. E come nelle trascorse manovre i protagonisti sono vari, stretti in
cerchi concentrici. Attualmente legano da una parte le truppe fedeli al leader
di plastica (Al Serraj), suggerito da Washington e sostenuto soprattutto dai
governi italiani succedutisi. Dall’altra i riottosi, che assaltano i palazzi di
Tripoli, postisi al generale duro, ma ampiamente opportunista, Khalifa Haftar già
al servizio di Gheddafi e poi contro di lui. Dietro i due contendenti alcune
nazioni europee interessate principalmente ai rifornimenti di petrolio libico,
pregiato per i suoi bassi costi di raffinazione. L’Italia seguendo la via
maestra statunitense s’è spesa, come detto, per Serraj, rampollo d’un clan
locale che ha sempre contato; britannici ma soprattutto i francesi sponsorizzano
Haftar, lo facevano anche prima che Macron salisse all’Eliseo, ora ancor più.
Negli ultimi caotici quattro anni della Libia son state proprio
le tutele a creare problemi ai due soggetti che si dividono il Paese, ciascuno
nella propria roccaforte: Serraj nella Tripolitania, Haftar in Cirenaica,
mentre nel Fezzan desertico, ma non privo di pozzi, s’è mosso di tutto:
jihadisti, bande armate di vario genere, trafficanti di vite, migranti economici,
rifugiati disperati in cerca di salvezza
in quel Mediterraneo diventato mare di morte. Ai due leader, o pseudo tali,
fanno riferimento decine di gruppi tribali, che forniscono uomini alla causa di
ciascuno in cambio di favori (parte dei
proventi dell’estrazione) né più né meno che come ai tempi del colonello della
Jamahīriyya, lui decisamente più furbo nel saper vendere ideali e carisma. Merce
sconosciuta ai due contendenti, nonostante l’ulteriore appoggio ricevuto da
alcune potenze locali (Turchia e Qatar sono pro Serraj, Egitto e Arabia Saudita
sostengono Haftar), ma ciascuno bada ai suoi giochi. Il più inquietante è quell’asse
militar-reazionario fra il Mediterraneo orientale e il Golfo, non a caso
gradito alla casa Bianca.
Eppure la “diplomazia del business” nei mesi scorsi ha
operato per cercar di avvicinare le parti, conservando magari un Paese diviso
pur di continuare a estrarre barili di greggio e risollevare un’estrazione
caduta in alcuni periodi a 450.000 barili al giorno, mentre prima della crisi
del 2011 se ne ricavavano un milione e seicentomila. E in più far lavorare
l’indotto che Eni, Total, British Petroleum e altre presenze hanno sul
territorio, proprio partendo dal sottosuolo. Secondo taluni osservatori le
dichiarazioni di certi capibastone proclamatisi combattenti (un esempio è tal
al Badi della Settima Brigata assediatrice di Tripoli) che parlano di ruberie
ai danni della popolazione, e corruzione, e faccende private da inserire nei
rapporti con la politica, affermano verità, ma lo fanno perché si son
visti esclusi da proficue spartizione di
cassa e di potere. E sembra non esserci salvezza, dentro e fuori il Paese, visto
che l’ipocrisia (e gli interessi) occidentali, dopo aver confezionato un
governo fantoccio, accettato la presenza d’un signore della guerra, secondo le
fasi amico e nemico, vorrebbe inscenare la farsa elettorale entro l’anno. Ora tutto
sembra complicarsi.
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