lunedì 3 settembre 2018

Libia, presente come passato


Assumono il volto peggiore, ma assai diffuso in tanto Medio Oriente, i nodi della lunga contraddizione libica. Bombe, agguati, mitragliamenti con morti e feriti (finora limitati a quaranta e un centinaio) ma si teme una ricaduta in quella guerra più per bande che civile, già scaturita dall’abbattimento di Gheddafi. E come nelle trascorse manovre i protagonisti sono vari, stretti in cerchi concentrici. Attualmente legano da una parte le truppe fedeli al leader di plastica (Al Serraj), suggerito da Washington e sostenuto soprattutto dai governi italiani succedutisi. Dall’altra i riottosi, che assaltano i palazzi di Tripoli, postisi al generale duro, ma ampiamente opportunista, Khalifa Haftar già al servizio di Gheddafi e poi contro di lui. Dietro i due contendenti alcune nazioni europee interessate principalmente ai rifornimenti di petrolio libico, pregiato per i suoi bassi costi di raffinazione. L’Italia seguendo la via maestra statunitense s’è spesa, come detto, per Serraj, rampollo d’un clan locale che ha sempre contato; britannici ma soprattutto i francesi sponsorizzano Haftar, lo facevano anche prima che Macron salisse all’Eliseo, ora ancor più.
Negli ultimi caotici quattro anni della Libia son state proprio le tutele a creare problemi ai due soggetti che si dividono il Paese, ciascuno nella propria roccaforte: Serraj nella Tripolitania, Haftar in Cirenaica, mentre nel Fezzan desertico, ma non privo di pozzi, s’è mosso di tutto: jihadisti, bande armate di vario genere, trafficanti di vite, migranti economici, rifugiati  disperati in cerca di salvezza in quel Mediterraneo diventato mare di morte. Ai due leader, o pseudo tali, fanno riferimento decine di gruppi tribali, che forniscono uomini alla causa di ciascuno in cambio di favori  (parte dei proventi dell’estrazione) né più né meno che come ai tempi del colonello della Jamahīriyya, lui decisamente più furbo nel saper vendere ideali e carisma. Merce sconosciuta ai due contendenti, nonostante l’ulteriore appoggio ricevuto da alcune potenze locali (Turchia e Qatar sono pro Serraj, Egitto e Arabia Saudita sostengono Haftar), ma ciascuno bada ai suoi giochi. Il più inquietante è quell’asse militar-reazionario fra il Mediterraneo orientale e il Golfo, non a caso gradito alla casa Bianca.
Eppure la “diplomazia del business” nei mesi scorsi ha operato per cercar di avvicinare le parti, conservando magari un Paese diviso pur di continuare a estrarre barili di greggio e risollevare un’estrazione caduta in alcuni periodi a 450.000 barili al giorno, mentre prima della crisi del 2011 se ne ricavavano un milione e seicentomila. E in più far lavorare l’indotto che Eni, Total, British Petroleum e altre presenze hanno sul territorio, proprio partendo dal sottosuolo. Secondo taluni osservatori le dichiarazioni di certi capibastone proclamatisi combattenti (un esempio è tal al Badi della Settima Brigata assediatrice di Tripoli) che parlano di ruberie ai danni della popolazione, e corruzione, e faccende private da inserire nei rapporti con la politica, affermano verità, ma lo fanno perché si son visti  esclusi da proficue spartizione di cassa e di potere. E sembra non esserci salvezza, dentro e fuori il Paese, visto che l’ipocrisia (e gli interessi) occidentali, dopo aver confezionato un governo fantoccio, accettato la presenza d’un signore della guerra, secondo le fasi amico e nemico, vorrebbe inscenare la farsa elettorale entro l’anno. Ora tutto sembra complicarsi.

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