E’ più vicina alla pantomima d’un marcato doroteismo
che a qualsivoglia istinto geopolitico la visita compiuta ieri dal vicepremier
Luigi Di Maio al presidente egiziano Abdel Al Sisi. Senza un motivo esplicito,
se non quello che taluni commentatori hanno individuato in una smania di
concorrenza mediatica con l’altro vice premier nostrano o peggio con lo
smarcarsi, parlando d’altro, da cogenti problematiche interne sul lavoro, il
responsabile del dicastero che s’occupa anche di sviluppo economico ha trovato
in questo tema il salvacondotto per colloquiare col generale-dittatore
direttamente al Cairo. Infatti gli investimenti italiani in terra egiziana sono
stati uno degli argomenti dell’incontro. Gli interessi dell’Eni nel mega affare
del giacimento di gas Zohr, scoperto da tempo nelle acque territoriali egiziane
del Mediterraneo, erano nel cuore dei governi Renzi e Gentiloni, restano tali anche
per l'esecutivo Conte. Di Maio non l’ha negato, commentando con la stampa il
succo della chiacchierata cairota che ha lusingato il presidente-generale.
Il vicepremier italiano, sentendosi egli stesso compiaciuto dell’incontro
ravvicinato, sottolineava come buona parte dei discorsi hanno riguardato la
vicenda Regeni, i suoi ‘misteri’ la sua incompiutezza. Ha poi riferito
l’affermazione di Al Sisi secondo cui Regeni è “uno di noi”. Definizione non
sappiamo se più criptica, perversa o – ahinoi – beffarda. Le intenzioni della
casta militare di cui Al Sisi è immagine ed espressione sul caso Regeni è noto:
difendere i responsabili di quello scempio, dai vertici alla base, perché tutti
rispondono ai comandi repressivi che il regime impartisce da cinque anni. Dalla
presa del potere suggellata col
terribile massacro della moschea Rabaa. Da quel migliaio o più di
cadaveri il governo del Cairo ha inanellato altre uccisioni, sparizioni,
arresti rivolti contro chi manifesta, contesta, s’oppone o semplicemente
informa l’opinione pubblica e, come nel caso del ricercatore friulano, cerca di
comprendere cosa accadeva in quel Paese che sognava la thawra ed è finito nel lager di Tora e nel buco nero del terrore
diffuso.
Questo modello di nazione reazionaria, anche peggiore di
quella incarnata per un trentennio dall’uomo forte Mubarak, è l’ultimo
caposaldo di Washington nel Medio Oriente arabo, assieme alla falsamente cangiante
dinastia Saud. Gli intenti restano immutati: praticare interessi imperialisti
pur in scenari di parziale mutazione, impedire trasformazioni interne
favorevoli alle classi deboli, soprattutto se queste rivendicano diritti,
miglioramento delle condizioni di vita, redistribuzione della ricchezza. Ciò
che alla fine del 2010 molte piazze domandavano, in Tunisia, Egitto, Bahrein,
Siria, Marocco. Le tanto sbeffeggiate primavere arabe, che mai sono state
rivoluzioni, avevano in corpo fame e disoccupazione; in mente senso di
giustizia contro corruzione, ruberie, nepotismo; nel cuore il desiderio di
rompere il cerchio della paura che schiacciava la dignità individuale con lo
spettro di finire come Khaled Saeed, il Cucchi egiziano. Questo spettro è
tornato, in molti angoli mediorientali. In Egitto ha solo parzialmente cambiato
volto, perché i crimini di Sulayman e Tantawi li compiono Sisi e i suoi
aguzzini. Regeni è sì uno di loro: una delle loro molteplici vittime.
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