Come
suo solito tuona il presidente-sultano. Ce l’ha, stavolta non a torto con
Trump, il provocatore. Ce l’ha coi mercati della speculazione, che in verità per
affarismo anche gli affiliati al suo clan conoscono e frequentano. Ma nel caso
della Turchia, e dell’Iran, in questa fase la speculazione finanziaria che
cavalca la debolezza delle rispettive monete è tenuta su dalla speculazione
geopolitica. Non dovrebbe sorprendersene un giocatore d’azzardo come Erdoğan,
che di giravolte e doppiogiochismi è maestro. E magari sorpreso non è, visto
che da mesi il valore della lira turca è in caduta (circa il 50% da gennaio) e
le turbolenze erano previste all’orizzonte. Però i successi elettorali l’avevano
ulteriormente euforizzato e lui, da uomo forte, sulla nazione e sulla coriacea
maggioranza che lo sostiene confidava, e tuttora confida, per respingere chi
coi dollari attenta alla sovranità turca, cui contrappone il sentimento
patriottico e islamico dell’Anatolia. Le mosse d’un altro duro sullo scenario
mondiale, il presidente protezionista americano Trump, che in queste ore
raddoppia i dazi su due prodotti della siderurgia anatolica (acciaio e
alluminio) è stato solo il fattore scatenante su cui i mercati della finanza
fittizia si sono gettati per far vacillare quotazioni in molte Borse.
Con nocumento di tanti
risparmiatori. Certo, diversi investitori, dopo le sparate della Casa Bianca
hanno abbandonato o minacciato di farlo la piazza turca. Inoltre vari
osservatori notano come la stessa vicenda del pastore evangelico statunitense
Brunson, detenuto in Turchia con l’accusa di spionaggio, abbia ulteriormente
aizzato la smania rissosa del presidente-guascone, cui il collega ora imparentato
politicamente coi “Lupi grigi” tiene a non mostrarsi meno aggressivo. Perciò
Erdoğan risponde per le rime, sostenendo che in assenza d’una marcia indietro
sui dazi, il Paese che comunque mostra un’economia stabile, valuterà altre
partnership economico-finanziarie e geopolitiche. Nella fattispecie Russia e
magari Cina. Ipotesi che sul fronte strategico mettono in fibrillazione il
Pentagono e destabilizzano lo scenario Nato, che sul fronte del Mar Nero e del Mediterraneo
orientale ha nella Turchia un pilastro irrinunciabile dal secondo dopoguerra. Ma
proprio Erdoğan che nell’ultimo quinquennio
tanti problemi interni ed esterni ha avuto e s’è creato, è riuscito a
rilanciarsi come leader accettato fra la sua gente e nei consessi di crisi
palesi.
La guerra civile siriana l’ha avvicinato a Putin, dopo essere
stato un sostenitore palese e occulto dell’opposizione ad Asad e di certo
jihadismo, il dramma dei profughi siriani l’ha reso interessato salvatore di
un’Europa sottoposta ai ricatti dei membri di Visegrád e dei suoi ammiratori anti
immigrati del vecchio continente. Nella partita fra bulli il presidente turco
rischia più dell’omologo d’Oltreoceano, perché la forza economica statunitense
è cospicua, perché mercati e Borse finanziarie vedono lo zampino di lobbies e
istituti in cui la politica americana fa pesare i suoi intrecci. Eppure le
variabili geopolitiche riservano sorprese (Trump ne sa qualcosa proprio per
essere diventato, contro ogni logica, presidente Usa). I ceti medi turchi,
tuttora zoccolo duro del potere dell’Akp, come i bazari iraniani, compromissori
verso gli ayatollah e il braccio armato dei Guardiani della Rivoluzione, potrebbero
pure cambiar bandiera, ma servirebbe un’alternativa credibile, economica e
politica. Che non è certo l’immagine sovranista, xenofoba, ottusa, egoista e ricattatoria
dell’America First trumpiana. E tant’è.
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