Caduta sì, caduta no. C’è scontro anche informativo sulla sorte
della città di Ghazni, a 120 km sud-ovest da Kabul, che i comunicati dei
taliban sostengono d’aver conquistato e quelli governativi affermano d’essere
tuttora controllata, seppure sotto il fitto attacco da stamane. Affermano poi
che i miliziani sono, da ieri sera, a circa 250 metri dall’edificio delle forze
di polizia che difendono la città (circa 300.000 abitanti) ma non l’hanno
preso. I poliziotti sono l’unico presidio governativo, sebbene ora, dalla
capitale convergano nel luogo dell’assalto, militari e qualche elicottero
d’appoggio statunitense. L’iniziativa di difesa appare blanda, quasi volta a
non voler ostacolare del tutto lo spettacolo dei turbanti, e il retro pensiero
riguarda l’ostinazione con cui il presidente Ghani cerca di raggiungere un
accordo coi talebani per valorizzare le elezioni del prossimo ottobre. Però da
oltre un anno la Shura di Quetta non si fa convincere, al più stipula tregue;
da maggio ne sono state firmate due, poi interrotte come nel caso di Ghazni.
Questa provincia non è strategica, ma costituisce un
punto di passaggio verso città importanti. Attraverso Ghazni si va a Kandahar,
come nel distretto di Parwan (a nord della capitale) ci si dirige verso Bagram
fino a Mazar-e Sharif. Gestire le vie di comunicazione rappresenta l’anticamera
del controllo del territorio sul versante della forza e dell’indotto in
movimento, per ogni genere di merci. Le forze talebane occupano stabilmente due
aree meridionali, quasi per intero l’Helmand e un’ampia fetta del distretto di
Kandhar, dal 5% al 8% del territorio. Però in tante altre province hanno
avamposti, compiono occupazioni, scorribande, azioni dimostrative. Le
percentuali divulgate dieci mesi fa stabilivano il 15% di un’elevata presenza
sull’intero territorio nazionale, una media presenza sul 20%, una bassa sul
30%. Dunque lo spettro talebano riguarda il 70% dell’Afghanistan. E questo spiega
la frenesia di Ghani per accordarsi con loro e continuare nella sua sceneggiata
di governo. Ma i turbanti lo fanno cuocere a fuoco lento. A maggio duemila
miliziani si sono presentati a Farah, importante provincia occidentale,
cercando di occuparne il capoluogo.
Combattimenti e morti,
come in queste ore a Ghazni, poi hanno desistito anche perché in aiuto dei
militari locali sono accorsi marines. Stavolta l’attacco non è stato frontale.
Gli studenti islamici in armi, da settimane presenti nella provincia come del
resto in altre zone del Paese, s’aggiravano per le campagne. Chiedevano offerte
e imponevano dazi su raccolti e commerci e la gente, volente o nolente e
soprattutto senza difesa, glieli concedeva. Poi nella notte la scelta
dell’attacco contro il presidio armato del governo centrale: il posto di
polizia, dove si contano 16 cadaveri e
un numero imprecisato di feriti. L’occupazione durerà? Forse no. La strategia
sembra proseguire in direzione del logoramento, della politica di Ghani, non
del presidente che continua a risiedere fra Kabul e le località internazionali dove
le scorte del Pentagono lo traferiscono per colloqui, incontri, parate di
facciata. Chi muore e soffre, sta nella polvere afghana, in attesa che fra tre
mesi si trasformi in fango.
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