Sicuramente a Sabra e Shatila fu peggio. Non fosse
altro che per il numero, oltre tremila vittime prevalentemente donne, bambini,
vecchi. Per gli sgozzamenti, per la violazione di quei corpi palestinesi che i
falangisti del Libano odiavano come etnìa. E perciò sventravano. Ma il massacro
del 14 agosto 2013 davanti la moschea cairota di Rabaa Al Adawiya, rappresenta
un altro buco nero di qualsiasi sentimento umano, non solo per quel che avvenne
nelle ventiquattr’ore di cieca violenza, ma per la cupa omertà che ne è
seguita. E che tuttora regna sotto il regime della paura instaurato dal
generale Sisi. Una strage di Stato, organizzata dal potentissimo esercito che
aveva sostenuto il golpe bianco di Al Sisi, sospinto dai politici -
mubarakiani, liberali, nasseriani - che s’opponevano alla presidenza dell’uomo
della Fratellanza musulmana, Mohammed Morsi, eletto un anno prima. Quando, dopo
alcuni mesi e dibattiti attorno a due sostanziali riforme, una economica,
l’altra istituzionale per il rinnovo della Costituzione del 1973, deputati e
partiti si contrastarono. Ne seguì l’aperto boicottaggio dell’Assemblea
Costituente da parte del Fronte di salvezza nazionale che riecheggiava un mantenimento
dell’antico sistema tanto contestato dai moti di piazza Tahrir. Da lì, nella
tarda primavera 2013, iniziarono manifestazioni su piazze contrapposte di opposizione
e di sostegno alla presidenza Morsi.
Veniva sventolata una petizione popolare che chiedeva le
dimissioni del presidente, a detta dei promotori raccoglieva un milione, poi
tre quindi dieci e fino a trenta milioni di adesioni. Era il prodromo del colpo
di mano che ne seguì, quando fra il 2 e il 3 luglio le sempre presenti Forze
Armate, su iniziativa del ministro della Difesa Abdel Al Sisi posero agli
arresti Morsi. La piazza islamista s’agitò, ma non tutta. I salafiti del
partito Al Nour, ferrei nemici della Fratellanza, applaudirono all’iniziativa,
mentre l’attivismo della Confraternita organizzava la protesta. In due piazze (Rabaa
e Nahda) si concentrarono dei sit-in che già dopo una settimana vedevano decine
di migliaia di cairoti bivaccare in tenda e lì dormire, mangiare, pregare. Era il
loro moto di dissenso a quello che consideravano un’infamia contro la figura
istituzionale più prestigiosa, di cui veniva calpestata la legittima autorità. E
contro la nazione. I militari minacciarono lo sgombero dei giganteschi
assembramenti, in un paio d’occasioni provarono ad attuare l’allontanamento
forzato degli accampati, ne seguirono contrasti, tafferugli e l’iniziativa fu
abbandonata. Però il fuoco covava. Dopo il 40° giorno di protesta, cui non
seguivano spiegazioni per l’arresto effettuato nei confronti del presidente (di
lì a poco gran parte della nomenklatura dell’organizzazione politica islamista:
Badie, Shater, Taalat avrebbero subìto la stessa sorte), regnava un silenzio
irreale fra le tende cotte da un sole ferino.
Gli organizzatori saggiavano la sensazione
dell’isolamento interno e internazionale. Nessuno, al di là dell’onnipresente e
attenta al mondo arabo Al Jazeera, si
stava occupando degli sviluppi del panorama egiziano. I nuovi militari, che sostituivano
la vecchia guardia del camaleontico Tantawi, spadroneggiavano e già indicavano
la via repressiva da seguire resa necessaria dalla “lotta al terrorismo”. E
prima della mezzanotte - così raccontarono i superstiti di Raaba - gli
accampati vennero colti da stridori di camion, cingoli e un vociare sempre più
rombante. Videro caterpillar avanzare, giungergli addosso, senza fermarsi. I
più politicizzati di loro rivedevano l’immagine dell’attivista pro palestinese Rachel
Corrie triturata dalle ruspe israeliane. Perché questo accadeva a centinaia di
loro, mentre salivano urla, imprecazioni, mentre il fumo dei gas soffocanti e
urticanti gli stringeva la gola, scorticando la pelle. Mentre vedevano gente
che cadeva con fiotti di sangue che usciva dalla nuca, dal collo, dalle spalle.
Colpiti sulla via della fuga. Le poche, quasi uniche dichiarazioni del
ministero degli Interni del Cairo, giustificavano l’azione definita “di ordine
pubblico per motivi di sicurezza”. Per la presenza di “gruppi armati” fra i
manifestanti.
Quei nuclei di autodifesa utilizzati dalla Fratellanza in taluni
scontri dei mesi precedenti con polizia e avversari politici, ben altro dal
jihadismo nel quale presumibilmente finì anche una parte della loro gioventù a
seguito di quei fatti e della repressione stratificata nel Paese anno dopo
anno. Migliaia di poliziotti, soldati, cecchini spararono su una folla inerme,
esaltati sparavano nel mucchio e sui singoli corpi che svicolavano, li
colpivano fin dentro la moschea dove i più religiosi fra loro cercavano riparo,
sperando nella protezione del luogo sacro. Oltre la cronaca, diffusa il giorno
seguente sui media ma già archiviata dopo Ferragosto, nelle settimane, nei
mesi, negli anni ben pochi tornarono sulla strage. Non ci tornarono quando
Sisi, pretese l’elezione a presidente, né quando la ripeté con alle spalle
altri omicidi singoli e di gruppo, compreso quello del ricercatore italiano
Regeni. Solo qualche organismo umanitario (Human
Rights Watch) s’impegnò in un’indagine per ricostruire le efferatezze di
quelle ore. Su cui pesa il numero delle vittime (fra le 800 e le 1200), sebbene
di altre ottocento persone non s’è saputo più nulla. Stritolate fino a
risultare irriconoscibili? Morte in seguito e fatte sparire? Come di altre
migliaia di sepolti vivi, arrestati mai liberati, la nazione del presidente Al
Sisi non dice nulla. Né il mondo chiede.
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