Simbolo per simbolo,
mentre il presidente Ghani parla nel giorno della festa del sacrificio (Eid al
Adha) che avvìa in tutto il mondo islamico il pellegrinaggio verso i luoghi
sacri, i jihadisti afghani sparano granate. Sui palazzi della Kabul blindata,
che intoccabile più non è da tempo immemore, seppure sia tuttora il cuore d’una
condizione in itinere che vede convivere occupanti, collaborazionisti, signori
delle guerra vecchi e nuovi, talebani e concorrenti del locale Stato Islamico,
tutti sulle spalle del popolo afghano. Mentre i colpi di mortaio che centravano
angoli pregiati della città, risollevando ai più anziani il ricordo di quando
Massud e Hekmatyar si sparavano dalle montagne che circondano la capitale, la
diretta di Tolo tv trasmetteva le
parole del presidente con sottofondo di boati. Compreso il suo “rassicurante”
commento: “Se pensano di metter sotto gli
afghani a suon di missili, si sbagliano”. Capire chi avrà la meglio non è
cosa scontata, di sicuro Ghani non veste i panni dell’uomo delle certezze.
L’azione, stavolta senza vittime, se non quattro miliziani colpiti da due
elicotteri dell’aviazione afghana (altri cinque si sono arresi) aveva solamente
una funzione dimostrativa. Tanto per contraddire le autorità in un momento solenne
dallo stesso punto di vista religioso, fattore che quasi mai rientra fra le
priorità jihadiste.
Ghani parlava anche di
pace, dei colloqui proposti ai talebani, dell’amnistia che vuole attuare per
ammorbidire i reiterati dinieghi del mullah Akhundzada. Del resto quando nella
primavera 2016 quest’ultimo sostituì l’amico Mansoor, da poco eletto nuovo
leader dell’intera Shura e che comandi statunitensi pensarono immediatamente di
far saltare in aria con un drone, gli analisti avevano preannunciato
l’integrità dell’ex combattente, diventato durante il governo talebano giudice
di Kandahar. Akhundzada pone come condizione per avviare colloqui il ritiro
totale delle truppe Nato e la chiusura delle nove basi aeree americane. Una
chiarezza che aveva già fatto scuotere la testa ai vertici di Cia e
Pentagono. Perciò la proposta di Ghani è
un’araba fenice, oppure un mezzuccio, peraltro inefficace, per tirare avanti
fino alle elezioni di ottobre. A frustrare ancor più i suoi tentativi giunge la
notizia d’una mossa diplomatica russa: il ministro degli Esteri Lavrov invita i
taliban a un tavolo di trattative dai primi di settembre. Oltre al fantoccio
Ghani, colpita sarebbe anche la Casa Bianca che si vedrebbe all’angolo in un
Medio Oriente sempre più a gestione russa.
Certo, nel curriculum
personale Haibatullah Akhundzada vanta un passato d’integerrimo mujaheddin
antisovietico. Non so quanto spazio darebbe a un giro di pagina nei confronti
di uomini d’apparato dell’ex Unione Sovietica. Lavrov, che lì intraprese la
carriera diplomatica, non ha avuto come Putin legami col Kgb (che organizzò
l’invasione del 1979), ma è nota la rigidità del chierico attuale guida dei
talebani ortodossi. Di lui dicono sia anche un uomo di parola, basta
convincerlo. Per questo Ghani insiste sino a perdere ciò che gli resta della
poca dignità istituzionale, spera di convincerlo a entrare nel governo. Chissà
quale diavoleria dovrebbero, invece, proporgli i russi che dopo la Siria
tentano la carta della pacificazione anche in Afghansitan, puntando sulla
rivalità fra taliban e i turbanti dissidenti del Khorasan, come vogliono
chiamarsi. La richiesta centrale di Akhundzada starebbe benissimo al Cremlino:
smobilitare quelle basi aeree che negli anni della loro occupazione né Breznev
né Andropov fecero costruire. Lo fece George W. Bush che non brillava per
strategia vincente. Ma l’idea che gli americani mollino quanto di più prezioso
hanno ricavato in diciassette sanguinosi anni di “scarponi sul suolo” sembra
fantascientifica. I colloqui verteranno su altro. Se mai si faranno.
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