La vicenda narrata da alcuni ricercatori afghani sul caso
dell’unico gruppo del Daesh afghano collocato nell’area centro-settentrionale
del Paese, e formato come in altri casi da talebani dissidenti, è sintomatica
di quello scontro indiretto e ormai anche diretto, fra miliziani che fino al
2015 erano un tutt’uno. Una sorte di competizione per il titolo di “resistente”
all’Occidente che da mesi fa strage di civili. Nel distretto Darzab, 150 km
sud-ovest da Mazar-e Sharif, un tal comandante Hekmat aveva distaccato i suoi
guerriglieri dalle indicazioni della centrale talebana. I suoi uomini (e
ragazzi, vista la giovane età di molti reclutati) usavano la sigla dello Stato
Islamico della provincia del Khorasan, sebbene si trattasse di un’auto
dichiarazione, probabilmente non concordata con la componente più corposa
dell’ISKP, collocata nella provincia di Nangarhar. Dicono gli osservatori che i
miliziani di Hekmat fossero prevalentemente d’etnìa uzbeka e tajika, con un
numero ristretto di pashtun. Il gruppo, restando nella zona, si distingueva
soprattutto per scorribande e rapimenti a scopo d’estorsione, fino a quando il
leader è stato ucciso da un attacco coi droni statunitensi. Sostituito da
Mawlawi Habib Rahman, proveniente dalla zona di Balkh, l’operatività dei
jihadisti non veniva contrastata da nessuna struttura governativa. Il capo
della polizia risultava rifugiato in una base dell’esercito di per sé,
comunque, inattiva.
Nel busillis di “chi controlla cosa”, che comunque esclude a
priori reparti e amministratori del presidente Ghani ben rintanati altrove, un
governatore-ombra della confinante provincia di Faryab, quasi omonimo del neo
leader jihadista: Mawlawi Abdul Rahman, avvertiva il nucleo dissidente che se non
avesse deposto le armi ci sarebbero state pesanti conseguenze. Dopo uno scambio
d’insulti, con funzione anche da propaganda verso gli abitanti dell’area, e
tanto di reciproche accuse d’essere fantocci dell’occupazione straniera, le due
componenti passavano alle vie di fatto. Ovviamente armate. Ne è seguito il
disegno talebano di sradicare con la forza la presenza dei dissidenti nel
Jawzjan con due offensive negli scorsi mesi di dicembre e gennaio. Alle
battaglie partecipava, anche perché direttamente interessato il
governatore-ombra del Jawzjan, tanto per chiarire che il controllo del
territorio continua a rappresentare uno dei fini irrinunciabili della strategia
talebana, fedele all’orientamento nazionale del proprio Jihad (mentre i
dissidenti parlano di Califfato, secondo le direttive del Daesh). Nell’indagine
svolta in loco dagli indomiti ricercatori afghani, fonti governative hanno
confermato che i talebani ortodossi hanno impiegato truppe provenienti da altri
distretti, come Sar-e Pul e Ghor, usando armi pesanti, proprio per piegare definitivamente
la concorrenza. Con l’uccisione, avvenuta a fine luglio, di due comandanti
dell’ISPK il morale dei seguaci è parso crollare.
L’impegno nello scontro pur locale è risultato intensissimo, ed è
stato monitorato da reparti dell’Afghan National Forces, rimasti a guardare in
alcuni avamposti confinanti con le zone del conflitto, cui s’aggiungevano osservazioni
aeree statunitensi accompagnate a uccisioni mirate. Gli stessi Taliban hanno
registrato numerose perdite, causate da azioni talune ardite, altre subdole
operate dagli avversari, che, ad esempio, li hanno colpiti durante i funerali
riservati ai capi caduti nei conflitti a fuoco. Dai primi di agosto la morsa
talebana s’è stretta sui nemici superstiti. Non facendo, comunque, mancare esplicite
trattative: essi avrebbero dovuto scegliere se rientrare fra gli ex compagni
oppure esser trattati come le truppe governative. La proposta ha spaccato i miliziani
dell’ISPK, alcuni si sono dichiarati disponibili ad avvicinarsi all’esercito di
Kabul. E ci sono testimonianze di capi tribali di alcuni villaggi del Darzab
che sostengono d’aver visto elicotteri governativi trasferire gruppi ristretti
di combattenti e tre capi dell’ISPK in luoghi riparati dall’offensiva talib. Più
tardi è giunta una dichiarazione di Mawlawi Habib in persona che s’è detto
stanco di guerra e disposto ad accettare i colloqui di pace, sebbene il tavolo
maggiore sia rivolto ai talebani, non ai dissidenti come lui. A conferma d’un
giro a 360° fra le parti c’è un servizio di Tolo
Tv che intervista alcuni jihadisti in questione e sullo sfondo passano
tranquillamente militari dell’esercito afghano, i loro probabili liberatori.
In questo viscido quadro, che ha comunque logiche scritte in decenni di presenza di Signori
della guerra nelle vicende interne, coi legami etnici, le alleanze di comodo
non durature, gli interessi di parte, può rientrare il filo d’unione uzbeko che
spiega la mano tesa governativa a questi jihadisti. Ricordiamo che il vecchio
boss Dostum, pur provato da qualche problema di salute, è tuttora
vicepresidente di Ghani. Quest’ultimo, mentre cerca di giungere alle elezioni
di ottobre in un clima diventato roventissimo, farebbe carte false con
qualsiasi miliziano pur di provare ai suoi protettori di Washington e agli
amici della Banca Mondiale, che il suo esperimento governativo è flessibile e non
è fallito affatto. Ora con la sedicente ‘riconciliazione nazionale’ per
assegnare un’amnistia, il presidente lancia un discrimine fra coloro che hanno
commesso crimini e quelli che non li hanno commessi. Cos’è un crimine nella
terra di criminali inveterati promossi capi di Stato da quegli interventi
criminosi definiti negli anni: Enduring
Freedom, Isaf Mission, Resolute Support è facilmente spiegabile
nelle inascoltate parole di chi cerca un Afghanistan libero da ingerenze d’ogni
tipo. Voci tuttora ai margini, odiate dai jihadisti d’ogni sponda e dagli altri
poteri forti (eserciti d’occupazione, governi fantoccio, potenze regionali) che
si spartiscono affari privati in una terra obbligata alla guerra.
Nessun commento:
Posta un commento