Mentre una parte della
gente di Ahvaz s’è stretta attorno alle bare dei martiri dell’agguato mortale
di sabato, la comunità araba sunnita della regione si ritrova l’accusa d’essere
il motivo dell’attentato, vista la linea separatista seguita da alcune
componenti politiche locali come il Fronte popolare degli arabi di Ahvaz. Ma
questo gruppo e altri sospettati rigettano le accuse, girandole sul regime
possibile autore d’una montatura per stringere ancor più la morsa sulla
provincia del Khouzestan, ricca di petrolio e intollerante nei confronti del
governo di Teheran, ampiamente contestato nei mesi scorsi. Rispetto a proteste
di carattere prettamente economico registratesi in varie città iraniane, in
quest’area il malcontento sunnita mostra, accanto a tale matrice, quella del
dissenso politico e guarda a ovest, per quanto oltreconfine l’attuale Iraq offra
contorni caotici. Da quel che è dato sapere i locali interagiscono più con
strutture come quelle citate, organizzate con dissidenti espatriati all’estero
(ad esempio a Londra) che col jihadismo militante. Quello che potrebbe aver
organizzato lo spettacolare attentato, frutto di un’organizzazione articolata,
per ciò che appare dall’infiltrazione del loro commando in una struttura tutt’altro
che facile da raggirare come i pasdaran.
Oltre al sangue versato,
al terrore diffuso, all’offesa arrecata alla sfilata per l’anniversario della
guerra patriottica contro Saddam, è stata lesa l’immagine coriacea che i
Guardiani della Rivoluzione amano offrire del proprio corpo d’élite. Un
elemento psicologicamente non secondario. Perciò i vertici dello Stato, col
ministro della Difesa Hatami, il capo dell’Intelligence Alavi, il deputato e
comandante pasdaran Salami, fino allo stesso presidente Rohani sono intervenuti
pubblicamente additando chi trama nell’ombra per destabilizzare anche
militarmente la nazione. La triade accusata raccoglie Stati Uniti, Israele e
Arabia Saudita, sponsor militari e ideologici d’un certo fondamentalismo islamico
usato - a detta di Teheran - come ariete per colpire la sicurezza nazionale interna.
Certo, la sigla dello Stato Islamico è comparsa nella rivendicazione dell’agguato,
come pure quella Al-Ahvaziya. Se il Daesh è da un quadriennio materia, ectoplasma
e fantasma della politica destabilizzante in Medio Oriente, del secondo si sa
che è finanziato dalla dinastia Saud e che nell’area ha già compiuto azioni con
l’intento di divulgare un progetto separatista. Invece s’autoescludono dallo
scenario della strage altri separatisti, denominati Patriotic Arab Democratic
Movement in Ahvaz.
Nel richiamo che la
notizia dell’attentato ha avuto ovunque nel mondo, s’inserisce il botta e
risposta fra Rohani e l’ambasciatrice statunitense all’Onu Haley. Il primo non
ha risparmiato colpi antistatunitensi rivolti al bullismo della politica estera
trumpiana; la portavoce di ferro ha ripetuto sprezzante che nell’incolpare gli
Usa gli iraniani devono guardarsi allo specchio. Il duetto accende
ulteriormente gli animi alla vigilia delle prossime sedute dell’Assemblea
generale delle Nazioni Unite. Rohani, come altri capi di Stato, è atteso domani
e dopodomani a New York. A condurre il dibattito nel Palazzo di vetro ci sarà
proprio la Haley, e il da lei strattonato Rohani dovrà incontrare l’omologo
Donald Trump. Sebbene il faccia a faccia potrebbe in extremis saltare, non
tanto per le tensioni rinfocolate in queste ore, ma perché il dibattito sul
nucleare iraniano sembra diventato un dialogo tra sordi dopo il rilancio
dell’embargo unilaterale imposto dal presidente Usa. Temi caldissimi anche
quelli dei conflitti mediorientali sugli scenari siriano e yemenita, sempre con
gli iraniani coinvolti e gli americani critici sull’operato di quest’ultimi. E’
noto che l’Assemblea Onu ha solo funzioni consultive, esamina questioni e
propone orientamenti per garantire la pace internazionale. Purtroppo decisioni,
prese a maggioranza di due terzi, possono tranquillamente risultare inapplicate
e dunque infruttuose.
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