Ha parlato direttamente col presidente Al Sisi, Roberto Fico,
presidente a sua volta, del Parlamento italiano, dopo aver incontrato in
precedenza l’omologo egiziano. Differentemente dal collega Di Maio, ha parlato
esclusivamente del caso Regeni affermando che “le indagini sono a un punto di stallo”, cosa che Sisi sa benissimo
semplicemente perché è il regista della palude in cui si dibatte l’Egitto dal
2013. Data della sua presa del potere, operata con un golpe, prima bianco e
dopo quarantacinque giorni rosso sangue, colato dai corpi di centinaia di
concittadini che il presidente dal sorriso gentile faceva massacrare dai suoi
militari e poliziotti. L’Italia con gli esecutivi Renzi e Gentiloni ha fatto
inizialmente la voce grossa, ha ritirato l’ambasciatore dal Cairo per poi
rintrodurlo con l’alibi che avrebbe controllato da vicino (sic) i passi
istituzionali della nazione sull’omicidio del ricercatore. Tutto questo dopo
che gli stretti collaboratori di Sisi, finanche il ministro dell’Interno
Ghaffar e quello degli Esteri Shoukry, coprivano i sottoposti esecutori di
sequestro, torture e omicidio di Regeni. Sicuri dell’impunità che il nuovo raìs
garantisce loro, visto che di arresti, sequestri, torture, galera, assassini e
sparizioni l’Egitto dei militari di Sisi fa un uso sistematico. Come le
peggiori dittature mondiali.
Con questi sanguinari, pur dal rassicurante aspetto, i politici
italiani pensano di dialogare. Se non sono proprio fuori di senno, possiamo
pensare che inscenino anch’essi una sceneggiata. Fanno quel che i vertici d’una
nazione devono fare, ma senza prendere contromisure nei confronti della
chiarissima tattica della Sfinge in divisa che promette, ma tergiversa e
soprattutto ostacola indagini e processo. Come abbiamo visto, in Egitto a
processo vanno gli scampati dal massacro della moschea di Rabaa, l’Epifania di
quel che Al Sisi avrebbe riservato al suo popolo, iniziando dagli odiati
Fratelli musulmani, per passare a oppositori della sinistra giovanile, e socialisti,
e giornalisti, e blogger e attivisti dei diritti. Tutti costoro hanno riempito
le galere egiziane, mentre gli attuali presidenti e vicepresidenti cinquestelle
e leghisti guardavano probabilmente ad altro, intenti a quell’avanzata elettorale
volta a gabbare i claudicanti governi del Pd. Nel febbraio 2016 apparve in
tutta la sua drammaticità la vicenda Regeni, uno scempio che confermava ciò che
da anni era messo in cantiere dalla macelleria egiziana. La cui dirigenza, non
a caso militare, rievocava i ‘garage Olimpo’ dell’Argentina di Videla. Come
allora, la comunità internazionale ha taciuto e continua a farlo.
L’Italia, parte offesa, si barcamena in goffe iniziative con
l’Egitto, i cui vertici si beffano delle inchieste della procura di Roma, che
ha esplicitamente denunciato le falsità e l’omertà del governo cairota. Altro
che collaborazione! Altro che promesse di far luce! Sisi governa su una
popolazione soggiogata o adescata col terrore, governa nel buio pesto delle
prigioni dove in questi anni sono sparite attorno alle cinquemila anime. Questo
denunciano talune Ong umanitarie che hanno dovuto abbandonare quel Paese per
non finire esse stesse risucchiate nel gorgo della repressione. Si può
dialogare con dei criminali travestiti da statisti? E’ la domanda che gli
attuali esponenti delle Istituzioni italiane, dai Di Maio ai Fico, viaggiatori
e interlocutori di Al Sisi, si sarebbero dovuti porre. Se sì, al di là di
diplomatici balletti, che differenti misure prende il governo ‘gialloverde’
rispetto a quelli rosapallido del Pd? All’orizzonte non si vede nulla, se non
moti autoreferenziali, attenti a non disturbare rapporti commerciali col
partner egiziano, per gli affari dell’Eni che sono solo in parte affari
nazionali. Essi potrebbero cedere il passo a una sana morale di quello stato di
diritto che sosteniamo di difendere e che ‘l’amico Sisi’ ha calpestato, facendo trucidare un nostro
cittadino. Diventato uno di loro, una vittima di quel regime cui non dovremmo
riservare colloqui e strette di mano, ma esplicite accuse.
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