L’attacco portato allo
Shahrestan di Ahvaz nel corso di una parata militare dei Guardiani della
Rivoluzione, è un’azione simbolo rivolta a una struttura strategica dello Stato
iraniano. La più potente, assieme a quella degli enti benefici (bonyad) gestiti
quasi esclusivamente dal clero e dai militari. Avviene in una zona occidentale
del Paese, sul confine iracheno, area che ha conosciuto le pene della lunga
guerra contro l’invasione di Saddam Hussein. E proprio quel conflitto,
sanguinoso e logorante, durato dal 1980 all’88 veniva ricordato con la sfilata,
quando dagli spalti un commando ascrivibile ai miliziani dello Stato Islamico,
così li ha definiti la Tv iraniana, ha scaricato le proprie armi sui pasdaran
intruppati e sugli ufficiali seduti in tribuna. Ne sono morti ventiquattro, una
cinquantina sono rimasti feriti, fra cui bambini che assistevano alla celebrazione,
mentre gli attentatori venivano in parte uccisi, in parte arrestati. I commenti
dell’agenzia Irna, fanno riferimento all’Isis ma anche alle protezioni e
finanziamenti offerti dall’Arabia Saudita. Il ministro degli Esteri Zarif,
coglie l’occasione parla esplicitamente di sponsor statunitense.
Lo stesso presidente
Rohani non lesina riferimenti critici agli Stati Uniti e alla politica
trumpiana che foraggiano la destabilizzazione in Iran con ogni mezzo, dal
rilancio dell’embargo, al sostegno dell’opposizione filo monarchica o
terroristica come quella esule Oltreoceano e Parigi, chiaro il riferimento agli
ex mujahheddin- e Khalq foraggiati dalla Cia. Certo, nel Paese esiste una profonda
spaccatura politica fra i riformisti, che hanno in due tornate elettorali
sostenuto il moderato Rohani contro i fondamentalisti religiosi e laici, e che
da mesi lo contestano. Cui s’aggiunge una spaccatura generazionale fra gli
ultrasessantenni, che hanno fatto la rivoluzione e hanno praticato la militanza
combattente, appunto contro Saddam, e i giovani nati negli anni Novanta e
successivamente. Quest’ultimi, gran serbatoio del voto progressista, vedono
tradite le speranze di cambiamento riguardo all’occupazione, alla
trasformazione sociale con un superamento di rigidità di costumi (pensiamo
all’obbligatorietà del velo), e al sistema clericale basato sul velayat-e faqih.
Parte del malcontento, esplicitato
nelle proteste di piazza dell’inverno scorso - meno clamorose, partecipate e
violente di quelle del 2009 - risulta spontaneo, ma l’opposizione interna ed
estera agli ayatollah ha sponde varie e può far riferimento a ogni
contraddizione esistente. Ad esempio, la crisi economica ha fatto criticare il
copioso, e costoso per le casse statali, impegno militare all’estero che sui
fronti siriano e yemenita dura da tempo. Una strategia che lega le posizioni
del tradizionalismo clericale avvallate dalla Guida Suprema, alla componente
tradizionalista laica, legata ai Guardiani della Rivoluzione. Ciascuno, nel
rispettivo cammino, ultraconservatore e modernista, ma di fatto
irrinunciabilmente non solo anti imperialista ma anti occidentale. Con tutte le
chiusure e le differenze del caso. Finora il collante fra tutte le componenti
politiche, anche quelle riformiste, è sempre stato quello della sicurezza interna,
seppure il modo d’interpretarla non sia il medesimo. Ma più si stringe la morsa
attorno all’Iran più l’interesse nazionale offre spazio al partito della forza,
che magari può cercare un nuovo Ahmadinejad da proporre per un futuro non molto
lontano. E questa via, attacchi terroristici o meno, segue il suo corso.
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