Tripolitania, Cirenaica,
fino al desertico Fezzan. Non c’è bisogno di ripercorrere le tappe della storia
mediterranea e le più recenti vicende del colonialismo italiano da Giolitti a
Mussolini, fino al colonialismo di ritorno praticato su versante energetico
dall’Ente Italiano Idrocarburi nella versione più sofisticata di Mattei, mica
dei boiardi Scaroni e De Scalzi, per sapere che la Libia è una creatura
fragile. Sorta come nazione prima in veste monarchica con re Idris, quindi con quell’esperimento
di ‘Repubblica delle masse’ naufragato nella dittatura personale di Mu’ammar
Gheddafi, il colonnello dell’emancipazione. Personaggio sognatore e cinico,
istrione e megalomane, condannato per scelta e suo malgrado al ruolo di
uomo-contro che sfida le sorelle dell’estrazione sul terreno della geopolitica.
Nella sua Libia le tribù stanziali e nomadi, divise da interessi, invidie e
ricerca di supremazia perpetuavano quei particolarismi conosciuti probabilmente
dallo stesso Settimio Severo e poi per secoli sino al declino dell’Impero
Ottomano che apre le porte alla Libia colonizzata.
Su questo territorio,
coi suoi clan finanche le potenti aziende del petrolio mondiale per proseguire il
business del sottosuolo necessitano di accordi. Loro li fanno, trattandosi in
fondo di briciole rispetto ai guadagni che perseguono. Comunque tutti:
affaristi, governanti, politici di ieri e di oggi brigano con ceppi familiari
conosciuti e secolari. Gadhafi, Warfallah, Zentan, Tarhuna si spartiscono
l’area della Tripolitania, in Cirenaica si tratta coi Zuwaya e Awaqir, e nella
zona di Tobruk con la tribù Obeidat. Il Fezzan vede l’antica e potente presenza
dei Magariha, mentre i Tuareg restano sovrani delle dune. Il conosciutissimo
panorama è ulteriormente variegato, i notisti giungono a contare addirittura
150 clan, poiché figli, rampolli ramificano le tribù, seppure le storiche
restano le citate. Quanto quest’ultime si facciano coinvolgere dall’evoluzione
degli eventi si dovrà vedere. Certo dallo scossone subìto dal regime
gheddafiano nel 2011 anche per un inizio di rivolta, per i voltafaccia di
alcuni clan, e soprattutto per i piani d’intervento giostrati fra la Casa
Bianca di Obama e l’Eliseo di Sarkozy, la Libia è terra di nessuno.
Darle una parvenza di normalità
è la mossa ipocrita con cui le democrazie affaristiche scrivono falsi copioni.
In questo caso sul banco degli imputati Francia e Italia, cioè Total ed Eni,
che pozzi ed estrazioni se le spartiscono con Bp e altri, ma sotto sotto tramano. Magari sperando che il politico sponsorizzato:
Serraj, da parte del nostro governo, Haftar, da quello Macron, li aiuti ad
avere di più, a favorire la propria azienda sulla concorrente, complici le
stesse tribù e i loro manipoli armati. Un quadro dove ciascuno cerca di trarre
vantaggio da una situazione degenerata e incancrenita negli ultimi anni di
destabilizzazione. E nelle stesse Nazioni Unite, che raggiungono un accordo per
un momentaneo cessate il fuoco fra contendenti, le posizioni italiane,
francesi, britanniche e statunitensi non seguono affatto processi unitari,
lavorando per l’autodeterminazione dei libici. Le divisioni tribali, ovvio, non
favoriscono questo processo, ma a monte i signori degli affari puntano sempre e
solo sui signorotti della guerra vestiti di qualsiasi foggia, turbante,
mimetica o doppiopetto.
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