“Sei un occupante, sei
un terrorista”
grida Erdoğan a Netanyahu e ci sta tutto. Da parte sua il premier israeliano rispedisce
al mittente, dicendo di non prendere lezioni da Ankara, ma senza la
determinazione d’altri momenti, ritenendo l’uscita del presidente turco quasi
una posa passeggera fra il turbillon di cose da lui dette, fatte e smentite
negli ultimi due anni. Il sultano, che reprime a spron battuto dentro e fuori
dai confini anatolici, non vanta più il credito che aveva ai tempi della Mavi
Marmara. Quant’è accaduto dopo quei fulmini ha evidenziato tutta la sua
peggiore ragion di Stato, volta solo a consolidare il proprio potere dentro e
fuori la Turchia. Usare la causa palestinese sembra ormai una speculazione,
come hanno fatto i raìs egiziani fino alla guerra del Kippur, vista la sostanziale
sudditanza che le successive leadership del Cairo hanno avuto verso le trame
tracciate da Washington e Tel Aviv. L’Erdoğan che usa il terrorismo, sia quello
foraggiato, sia quello di Stato per sostenere un percorso autocratico e
nazionalista, ha scarsa credibilità perfino fra gli islamici. Il guaio è che il
popolo palestinese è sempre più solo. A Gaza come in Cisgiordania. Prigioniero
nella Striscia e soffocato nella West Bank, sebbene nella prima si muoia di più
e si soffra ogni patimento, mentre dalle parti di Ramallah l’Autorità
Palestinese tiene in piedi la rappresentazione scenica d’un autogoverno
soggiogato, schernito, umiliato da Israele, seppure blandito dai fondi
internazionali che consentono una sopravvivenza.
L’iniziativa di Hamas sul ‘Diritto al ritorno’ che vede in questi
giorni migliaia di persone manifestare rischiando la vita (i martiri del
venerdì di passione sono saliti a 18 per il decesso di due feriti gravi) sarà
anche una mossa con cui un partito in crisi identitaria e in palese difficoltà
di gestione d’un territorio, che le voci più insospettabili definiscono una prigione,
cerca di rilanciare se stesso agli occhi
di concittadini sottoposti a ogni sorta di sacrificio, ma è comunque un atto
politico. Quello di cui è privo il partito Fatah, totalmente prostrato a
logiche antiche cui aveva abituato anche l’ultima gestione di quel padre d’una
patria patteggiata e mai realmente raggiunta, il mitico Yasser Arafat. La
frattura fra Hamas, che prese il potere nella Striscia con libere elezioni del
2006 e si trovò a ribadirlo a colpi di kalashnikov un anno dopo con scontri fratricidi
capaci di segnare ferite profonde, e l’Autorità Nazionale Palestinese sembra
rimanere. Nei mesi scorsi i due partiti hanno
provato a riconciliarsi attorno a una delle enormi contraddizioni di questo
stato di cose: la gestione dei fondi internazionali rilasciati unicamente
all’Anp. Per far fronte all’emergenza alimentare, energetica, sanitaria di
Gaza, i vertici hanno provato ad accordarsi in tal modo: le frontiere della
Striscia, diventate in tanti casi bollenti per via delle proteste e dei “tunnel
della salvezza” passano sotto il controllo di Fatah, la sicurezza interna è
garantita da Hamas.
Così gli uomini (pure armati) di Abu Mazen son potuti
rientrare da dov’erano stati cacciati, mentre le gravissime difficoltà di
sopravvivenza dei gazawi, che tanta impopolarità hanno creato agli
amministratori di Haniyah, venivano lenite. Ma è il classico pannicello. La
Casa Bianca e gli attori che presiedono l’irrisolta questione
israelo-palestinese usano questi fondi come esca per controbilanciare ogni
mossa d’Israele. Nei decenni s’è trattato di reati: colonie illegali in
Cisgiordania, requisizioni e abbattimenti a danno dei palestinesi, loro arresti
e uccisioni, fino ai massacri organizzati, da ‘Piombo fuso’ a ‘Margine di
protezione’. Quei dollari impediscono lo sviluppo di un’economia autonoma, di
fatto rendono un intero popolo schiavo d’un sistema assistenzialista che ne
prostra la politica e ne impedisce l’emancipazione. Non è una novità. E’ un
meccanismo messo a punto da decenni dai sostenitori di un Israele non solo
sionista, ma decisamente razzista che teorizza lo Stato per soli ebrei a cui
danno fiato tante anime belle e progressiste. Egualmente il mondo arabo con la
sua Lega, le nazioni simbolo, dall’Egitto alle monarchie del Golfo passando per
Turchia, hanno offerto solidarietà morale, talvolta materiale, ai palestinesi
senza sostenerne uno sbocco politico. Quest’ultimo offuscato, svilito,
ripudiato da compromessi e contrapposizioni, ma soprattutto maciullato da
Israele che ha fatto della sopraffazione la propria essenza, appare come la
gravissima colpa della politica. Di tutti. Resta una resistenza sempre più
spontanea, spesso individuale, dai grandi entusiasmi giovanili, purtroppo dagli
effetti limitati. Una striscia rossa su una Striscia di terra.
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