Il Tribunale Penale Internazionale, su cui l’associazione
afghana Saajs (Social Association of
Afghan Justice Seekers) confida per condurre alla sbarra i responsabili di
omicidi, rapimenti, torture, stupri, vessazioni che continuano a rappresentare
la triste quotidianità in Afghanistan, ha deciso di rinviare la decisione se
investigare o meno attorno ai reati compiuti da truppe d’occupazione Nato,
governative e milizie talebane. Si dovrà decidere se esaminare il materiale
raccolto e ascoltare i testimoni per procedere penalmente, si badi bene, contro
individui, non contro governi o gruppi armati. Cosicché già viene meno uno dei
cardini per ottenere giustizia su tante nefandezze che hanno presupposti
collettivi e rispondono a strategie geopolitiche. In tal senso testimoni e familiari di vittime, come quelli
incontrati in un recente viaggio a Kabul (cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2018/03/afghanistan-saajs-la-giustizia-contro.html), difficilmente
potranno vedere una ricaduta sociale e politica d’una simile procedura. Essa
eleva una barriera fra le responsabilità soggettive di chi materialmente ha compiuto
gli atti criminali e quelle dei mandanti, svincolando i delitti dai progetti
dei vari attori che si muovono nel Paese. Il rinvio assume i contorni della
brutta diplomazia, quella compiacente coi poteri forti, quasi non si volesse
disturbare il doppio programma in atto: i sempre aperti (sebbene improduttivi)
colloqui coi talebani della Shura di Quetta e la preparazione della scadenza
elettorale del 2019.
E già gli Stati Uniti hanno annunciato che il Tribunale non ha
giurisdizione sui propri cittadini. Mentre la presidenza Ghani, pur affermando
una volontà di collaborazione, ha richiamato presunte opportunità del momento,
sostenendo che le investigazioni minerebbero la stabilità (sic) del Paese. Forse
potrebbe servire più la creazione d’un Tribunale Internazionale rivolto
esclusivamente all’Afghanistan, come accadde a metà anni Novanta per le vicende
del Ruanda, ma per gli appetiti geostrategici, e ora anche geoeconomici, che la
nazione asiatica suscita tutto ciò appare un’utopia. Perlomeno si potrebbe
giungere all’avvìo, e si auspicherebbe a conclusione, dei processi contro i
crimini di guerra. Ma come esposto sopra, militari e ufficiali Nato risultano
intoccabili, del resto giustificano anche le stragi di civili con la ‘lotta al
terrorismo’, come pure difficile sembra un’autocondanna per i politici afghani,
molti dei quali sono signori della guerra (Abdullah, Dostum) in carica
governativa. Potrebbero restare i talebani “cattivi”, visto che con quelli
“buoni” e coi loro mentori (Hekmatyar), Ghani è impegnato in trattative. Ma il
trio dei giudici neo incaricati (il congolese democratico Mbe Mindua, il
giapponese Akane, e l’italiano Aitala) se entro il 20 luglio prossimo non prenderà
la decisione di avviare la procedura penale, questa slitterà ulteriormente.
Potrà ripetersi quanto già accaduto: il gruppo dei magistrati decade e verrà
sostituito da altri colleghi che dovranno riesaminate la documentazione per
proporre un processo. Così di rinvio in rinvio il tempo scorre, l’impunità
dilaga, i civili muoiono. Ad libitum…
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