Per capitalizzare gli effetti delle ultime mosse sul
terreno siriano e la conquista di Afrin Erdoğan in patria gioca d’anticipo
sulle elezioni politiche, unendole alle presidenziali previste fra oltre un
anno. Forza la mano sull’alleato di comodo Bahçeli che suggeriva il 26 agosto e
lancia un’election day per il 24
giugno. Ovviamente si prende la scena commentando che il passo diventa necessario
perché la Turchia riesca a superare le incertezze che si stagliano per le
situazioni di Siria e Iraq. Ma lascia annunciare il tutto alla figura che,
secondo il progetto di Repubblica
presidenziale approvato col referendum un anno fa, verrà soppressa
quella del premier. E’ stato, dunque, il primo ministro Yıldırım, ridotto a
gran visir di second’ordine, a ufficializzare che il processo elettorale
prenderà il via immediatamente. Una commissione sta già lavorando per avviare
il dibattito in Parlamento. L’azione presidenziale tende a incamerare
elettoralmente quanto più è possibile dai passi compiuti in politica estera, dove
l’azzardo che lui ha trasformato in regola ha tempi dettati dall’andamento di
vicende che, come dimostra il sipario siriano, sono comunque cangianti e non
definite.
In più c’è la non favorevole contingenza di sondaggi che
mostrano consensi in calo per l’alleanza fra Akp e Mhp, dati che parlano di diversi
punti sotto il 50%. L’accoppiata islamo-nazionalista spera che anticipo
elettorale possa sottrarre voti all’opposizione del partito repubblicano,
rimasto bloccato dal superattivismo in politica estera del presidente che ha
molto puntato sulla carta dell’orgoglio nazionale contro cui il Chp non s’è
sentito di muovere foglia, specie dopo il repulisti seguito al tentato golpe
gülenista. Mentre il Partito democratico dei popoli vive l’oggettiva difficoltà
di riorganizzarsi a seguito delle ripetute azioni repressive avviate contro
l’etnìa kurda dall’estate del 2015. Comunque i sondaggi considerano le due
formazioni in grado di ribadire le percentuali degli ultimi tempi: 25% i
repubblicani e il conseguimento della soglia del 10% per entrare in parlamento
da parte del gruppo di Demirtaş. Il problema sarebbe conservare i deputati nel
Meclis, visto che più della metà degli
onorevoli Hdp eletti nel novembre 2015 sono stati incriminati per
“terrorismo”. Se non un terrore, certamente un brivido d’incertezza
all’alleanza Akp-Mhp lo induce l’Iyi Party, fondato nell’autunno 2016 dalla
frondista Meral Akşener, lanciata a testa bassa contro la dirigenza di Bahçeli
che s’asserviva a Erdoğan.
Akşener è a suo modo una “lupa grigia” ben addentro ai gangli
del sistema, perlomeno quello kemalista, in cui ha ricoperto incarichi nel
dicastero più amato dalla destra eversiva turca: quello degli Interni. La lupa
ha poi tre assi nella manica che intende giocarsi per incrinare il consenso elettorale
del sultano. E’ una fedele musulmana e fa leva sulle donne islamiche, gran
bacino elettorale erdoğaniano, sostenendo ciò che l’ex premier e ora presidente
ha poco concesso: spazio politico di genere. Poi vuol erodere la prerogativa
presidenziale della lotta al terrorismo identificato con l’etnìa kurda. Lei
sostiene che i diritti delle minoranze semplicemente non hanno diritto di
concessioni. Eppure è capace di giri di walzer degni del presidente, perché sul
fronte dell’informazione (forse perché massicciamente controllata dal gruppo di
potere dell’Akp) Akşener parla a favore della libertà dei media che “non devono essere sotto pressione”.
Insomma appare sulla scena l’incognita d’una politica a tutto tondo e senza
scrupoli. Per questo l’anticipo delle elezioni potrebbe diventare un sotterfugio
per provare a escludere dalla corsa con cavilli burocratici il neo partito,
pericoloso perché capace di rubar voti alla coalizione che guida la Turchia. Ma
i commentatori economici sostengono che il pericolo maggiore per Erdoğan è
un’economia interna in cui l’inflazione sale, la disoccupazione pure mentre la
lira turca precipita.
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