I protagonisti e signori della geopolitica mediorientale s’incontrano ad Ankara
per discutere di presente e futuro, della Siria e non solo. Il passato siriano
col mezzo milione di vittime, i tredici milioni di sfollati in gran parte
civili, non sembra sfiorare i presidenti Putin, Erdoğan, Rohani. I triunviri che decidono cosa fare d’una nazione
che l’iniziale conflitto fra ribelli e Asad, e l’ingresso in forze dell’Isis ha
trasformato in una carneficina. Come in tutte le guerre. E più di tante guerre
non c’è stato finora nessun sentimento d’umanità, di solidarietà non tanto col
nemico, ma verso chi restava e resta schiacciato fra le decine di forze che si
scontrano su fronti flessibili, con alleanze volubili che hanno visto riunirsi anche
chi si collocava su versanti opposti. Oggi una Russia in piena volontà di
potenza nel Medio Oriente, dove la politica statunitense degli ultimi anni
oggettivamente ambigua, vile e in vari casi autolesionista ha incrementato le
già cospicue contraddizioni decennali, è il perno che attrae due contendenti
regionali diventati alleati. L’aggressiva Turchia e il vigilante Iran si
stringono la mano, perché un laico in odore di islamizzazione interna e
internazionale e un chierico, per giunta sciita, dai modi compassati e secolari
si ritrovano faccia a faccia a decidere cosa fare di un’antichissima terra. La
Siria, nazione moderna nata sulle mappe coloniali di Sykes e Picôt e gestita in
chiave teoricamente socialisteggiante da una delle meteore del terzomondismo,
trasformatasi in clan, prima dispotico poi assassino di una parte del suo
popolo, è da anni un alleato strategico dell’Iran. Dei suoi piani di sostegno
alla componente sciita che vive nel sud del Libano.
La conservazione del Paese e di quel sistema di governo interessa
soprattutto a Teheran, oltre che a Mosca che già in epoca sovietica aveva nella
famiglia Asad un alleato fedele che consentiva alla flotta russa di stazionare
nel porto di Tartus, dunque nel Mediterraneo. Una spina nel fianco nel sistema
Nato. Congelare la Siria al suo passato, con tutte le contraddizioni politiche
interne, non appassionava invece Erdoğan, che infatti dal 2013 ha offerto
frontiere e aiuti bellici a jihadisti di passaggio e di casa che s’infilavano
in Siria per ampliare quel Daesh previsto e inseguito in terra irachena. Da
mesi, però, il sultano ha sorpreso tutti. Ha mollato gli islamisti alla propria
sorte unendosi con russi e iraniani che, oltre a impiegare uomini e mezzi di
terra e aria a difesa dell’integrità siriana, difendono le sorti del
presidente. Con loro, grazie a loro Asad potrà continuare a guidare quel che
resta del Paese. La Turchia, alleata di punta della Nato nel Mediterraneo
orientale, s’è avvicinata a questo fronte, chiedendo e ottenendo via libera
contro le enclavi kurde. Così è iniziato il declino d’un pezzo del Rojava; non
è detto che la furia azzeratrice di Erdoğan si fermi ad Afrin e non venga
richiesta anche l’occupazione degli altri cantoni gestiti dal Partito
dell’unione democratica che Ankara considera una costola del Pkk. Costola da
frantumare. Per consentire l’operazione ‘Ramoscello d’ulivo’ Putin ha rimosso
le sue truppe di terra e aperto lo spazio aereo ai jet turchi, Rohani ha
guardato altrove, gli Stati Uniti che a lungo si son serviti del sacrificio
umano e spesso femminile delle Unità di protezione del popolo nella guerra
all’Isis si ritirano, come sostiene Trump, dall’intero impegno nella regione.
Asad, per parte sua, il Rojava l’ha sempre al più sopportato, non
certo amato. Dunque ad Ankara si perfeziona quanto già discusso a Sochi:
mantenimento del regime di Asad nella Siria legittima, se possibile riconquista
di territori ancora in mano ai ribelli, cancellazione dei territori autogestiti
dai kurdo-siriani abbandonati da tutti. Chi sta guadagnando maggiormente in
tale patteggiamento è proprio il presidente turco che riceverà fra un anno
anche la prima batteria missilistica di S-400 russi. Fattore che allarma il
Pentagono perché i codici segreti dell’alleato turco dovrebbero interagire,
dunque essere svelati, ai militari russi. Da quest’apertura la Turchia riceverà
pure benefici di tecnologia energetica.
Nei patti con Putin c’è il via libera alla costruzione della prima
centrale nucleare ad Akkuyu sulla costa mediterranea, a neppure 200 km dalla
base Nato di Incirlik. Il progetto (20 miliardi di dollari e realizzazione da
parte della società russa Rosatom, che però cerca un partner locale cui
affidare il 49% delle azioni) era predisposto dal 2010. Rientrava nella
pianificazione modernizzante varata da Erdoğan per la grande Turchia del
centenario nel 2013, momento topico che lui vuole presenziare per oscurare
Atatürk ed entrare nella leggenda. La contrarietà d’una componente verde,
giovanile e dell’opposizione politica - i ragazzi di Gezi park per intenderci,
totalmente azzerata o azzoppata dal clima di repressione e intimidazione - cade
nel vuoto e la politica internazionale, come spesso accade, va a consolidare
gli interessi e le opportunità della politica nelle singole nazioni. Ciascuno
dei triumviri guadagna qualcosa, nessuno ha interesse a proseguire la guerra,
ma non è detto che questa sia chiusa. Finora perde il sogno del Rojava.
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