Trappola mortale stamane nella Kabul diventata obiettivo
dell’Isis afghano. Un kamikaze s’è fatto esplodere presso l’edificio che ospita
la locale Intelligence (Nds) posto nell’area attigua a Shah Rarak Road, una via
parallela dell’enorme stradone che conduce all’aeroporto cittadino, peraltro
controllatissimi. Si trattava di un’esca. Sul luogo dell’attentato accorrevano,
come di consueto, autombulanze e personale sanitario più un manipolo di
giornalisti. E naturalmente le forze dell’ordine. Dopo una ventina di minuti
nello stesso luogo un secondo kamikaze, mescolato fra le presenze che
s’aggiravano fra i rottami, azionava il detonatore della cintura esplosiva nascosta
sotto gli abiti provocando una strage peggiore. Fra le vittime, assieme ai
passanti colpiti nella prima deflagrazione, si contano soccorritori e nove
giornalisti. Un comunicato del ministero della Salute parla di venticinque
cadaveri e una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate.
I nostri contatti in città riferiscono una situazione scioccante, perché oltre
a seminare sangue e lutti, infonde un livello d’insicurezza assoluto, che
indurrebbe a restare rinchiusi in casa in una situazione in cui muoversi è
indispensabile per la stessa sopravvivenza ordinaria.
L’esasperazione della morte, indirizzata solo
parzialmente alla cieca, quando colpisce gli sciagurati che si trovano a
transitare nel luogo e nel momento dell’attentato, segue invece un piano che ha
una strategia ben congegnata. Seppure le regìe possono essere varie. La prima è
attribuibile ai gruppi talebani dissidenti che usano il marchio dello Stato
Islamico del Khorasan, che hanno rivendicato la strage. Costoro si rivolgono
principalmente contro il governo Ghani e i suoi apparati della sicurezza, e
indirettamente contro i talib della Shura di Quetta, e i suoi momentanei
alleati del network di Haqqani, sempre passibili quest’ultimi di trasformismi
itineranti. I motivi sono: la supremazia sul territorio, con tutti gli
interessi economici di contorno, e la palma della resistenza antioccidentale. Nella
strategia stragista incidono pure le aperture fra governo afghano, Cia e i talebani
disponibili a trattative per entrare nel governo. Un quadro, in ogni caso,
instabile e cangiante da mese a mese. Sempre attiva l’altra regìa, attuata da Servizi
pakistani, che usano la destabilizzazione afghana, sotto ogni forma, provocata
oggi dalla corsa agli attentati, in altre fasi dalla guerra civile, per
ottenere una frammentazione del territorio in zone controllate da soggetti
diversi (come di fatto sta accadendo negli ultimi anni) per poterne trarre
vantaggi geopolitici nel confronto-scontro su quel tratto di Medioriente con
Iran e Arabia Saudita.
Non potendo essere costantemente in quei luoghi, come
altri colleghi ci serviamo del lavoro coraggiosissimo di corrispondenti locali,
raccolti in una rete di collaborazione con testate internazionali come Reuters e Afp. Oggi piangiamo questi cronisti dal fronte, si chiamavano Ghazi
Rasooli, Ali Rajabi oppure Shah Marai. Come dicevamo accorsi sul luogo
dell’attentato ed esplosi con la seconda bomba. A differenza di sfortunati
passanti, loro non erano lì per caso, si trovavano nel luogo dove il reporter
va per raccontare eventi spesso tragici dalle logiche perverse. Come perversa
sa essere tanta geopolitica. Questi giornalisti non erano propagandisti,
raccontavano ciò che vedevano, in molti casi lo facevano da free lance, perché
anche grandi agenzie d’informazione come quelle citate, non danno garanzie (non
tanto d’una sicurezza fisica che in quelle situazioni non può esistere) ma
sulla stessa retribuzione del prodotto di tanto lavoro e rischio, in un
mestiere che più gli editori che la tecnologia hanno deregolarizzato. Grazie al
certosino impegno di questi reporter il mondo che impazza attorno a progetti di
morte viene narrato, filmato, fissato in istantanee. A rischio della vita. A
questi comunicatori la terra è lieve già quando ne divulgano i fatti, poiché se
le parole e le immagini possono essere pietre, quelle dell’informazione libera
da imposizioni editoriali e di regime hanno la speciale virtù dell’impegno
finalizzato a una causa.
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