Nel voler fare dell’omicidio
Regeni l’ennesimo dramma ‘irrisolvibile’ ecco che indizi e prove spuntano e
ricadono con una periodicità finalizzata a rimandare a infinite rivelazioni
successive. Una trama perfetta in cui la tensione sale e scema senza giungere
al cuore del mistero, che mistero poi non è, perché la vicenda rientra a pieno
nella casistica globale degli omicidi di Stato. Bastava aver seguito quel che
accade in Egitto da anni, e dopo la speranza di Thawra in occasione della scadenza del 25 gennaio. Nell’ultima
messa in scena di queste ore la regia cairota decide di mostrare un altro
tassello. Non parliamo della regia televisiva che manda in onda un filmato del
ricercatore ripreso dal sindacalista-spione a servizio dell’Intelligence di
Sisi tramite una microtelecamera nascosta. Il presunto scoop è solo uno
strumento usato dalla cabina di regia del regime medesimo, dai suoi uomini di
punta come il ministro dell’Interno Ghaffar da cui l’Agenzia di Sicurezza prende
ordini. Con quelle immagini e quel colloquio rubati costoro vorrebbero
rilanciare la tesi di un Regeni che, consapevolmente o meno, si fa tramite di
raccolta d’informazioni che l’Università di Cambridge passerebbe
all’Intelligence britannica. Un filone da spy story, gettato lì, come altre
congetture (il decesso per incidente, l’intreccio di relazioni gay, il presunto
rapimento da parte di una gang con tentativo d’estorsione e tragica fine) che
gli apparati polizieschi hanno prodotto nelle settimane successive al
ritrovamento del cadavere.
Se n’è scritto a lungo,
si sono lanciate anche ipotesi a seguito di passaggi incongruenti: perché fare
trovare il corpo seviziato del giovane e non farlo sparire nel nulla com’è
drammaticamente accaduto per decine di attivisti scomparsi? C’è chi vuole
screditare il governo? Chi gli rema contro? Potrebbe essere un’ipotesi, ma manca
di conferme. Al contrario il regime dice altro e lo ribadisce da tempo.
Attraverso un sistema di terrore diffuso, di delazione e di omertà l’attuale
generale-presidente, la lobby militare da cui proviene, gli organi repressivi
di cui si serve, i gruppi politici ed economici che lo sostengono hanno istaurato
nel Paese dal luglio 2013 un odioso clima persecutorio lanciato contro gli oppositori.
Quelli di sponda islamista, iniziati a massacrare per via (con la mattanza
della moschea di Rabaa del 14 agosto 2013), e a seguire omicidi di attivisti
laici, lavoratori e sindacalisti, cui norme sedicenti di sicurezza diventate
legge marziale di fatto, impediscono di riunirsi in piazza. Sfidandole il 25
gennaio di due anni fa Shaimaa al-Sabbagh, un’insegnante, scesa in strada a
manifestare insieme a dei colleghi, trovò la morte. Dell’assassinio nessuno
rispose. Tutto è rimasto vagante, come i proiettili che le hanno fermato la
vita. Questa vittima, una donna, una professionista, non uno scalmanato
ragazzotto di Tahrir, serve a Sisi per tracciare il confine fra quel che è
lecito (l’obbedienza e l’asservimento) e ciò che al potere risulta
insopportabile (la contestazione). E naturalmente chi vuole narrare tutto ciò.
Il messaggio serve da
monito, come le migliaia di arresti e sparizioni, le bocche cucite
all’informazione, lo strazio del ricercatore trattato come un agente
provocatore. Tutto condito col consenso dei concittadini, anche dei più
sensibili a questioni sociali come gli iscritti a taluni sindacati inquinati da
collaboratori della polizia, resi perversamente complici attraverso l’arma del
ricatto oppure spinti nuovamente nel ghetto del silenzio, della paura,
dell’impossibilità di cambiare, all’opposto delle speranze innescate il 25
gennaio di sei anni fa. Doveva accadere lo scempio di Giulio Regeni, che
studiando il Paese scopriva i gangli d’una mai morta corruzione, per osservare
da vicino la violenza istituzionalizzata che gli oppositori denunciavano dai
tempi di Murarak, epoca in cui la polizia faceva di Khaled Said un’angosciante
maschera di morte anche più sinistra dello studioso friulano. La costante della
violenza non ha conosciuto soste in Egitto, praticata da ogni apparato: i baltagheyah, picchiatori prezzolati che
assaltavano le tende degli accampati a Tahrir durante il governo provvisorio
del Consiglio Supremo delle Forze Armate, o quelli che bruciavano le sedi della
Fratellanza Musulmana nei mesi della contestazione alla presidenza Morsi, sia
la polizia che stuprava Samira Ibrahim oppure spogliava e picchiava per via le
dimostranti. Col regime di Sisi, introdotto dallo sciagurato sostegno offerto
ai militari dai liberali di ElBaradei e dalla “sinistra” di Sabbahi, i mukhabarat, gli agenti segreti hanno
mutato nome (National Security Agency) non la sostanza e i metodi, rimasti
quelli di sempre.
Visto che in quel Paese
quasi nulla si può muovere sono la politica e la società civile internazionali
a dover lanciare segnali e opporsi alle sevizie d’un popolo. I vertici del
nostro Stato, il ministro degli Esteri Gentiloni diventato premier, che dopo il
ritrovamento del cadavere di Regeni prometteva fermezza e giustizia, non profferisce
parola. Segue le scelte del suo predecessore che all’ipotesi di rotture
diplomatiche con un regime di torturatori, ha pensato alle casse delle nostre
imprese (una è l’Eni) dirigendo lo sguardo altrove. Verità e giustizia per
Giulio Regeni, ma quando e grazie a chi?
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