Cronaca e
storia insanguinate -
Potrebbe essere un asiatico - afghano, uiguro, uzbeko - l’attentatore del Reina
di Istanbul che ha massacrato 39 avventori, ventotto stranieri e undici turchi,
nella notte di Capodanno. Un lupo solitario del jihadismo, camuffato non da
Santa Claus ma con una cuffia bianca col pon-pon (ora il dubbio è stato
chiarito), oppure il killer d’un commando che aveva un paio di complici. Un’ipotesi
quest’ultima ventilata ma impalpabile, visto che di possibili compari vengono
riferite solo sensazioni degli scioccati ospiti del night. Inquietante resta il
facile dileguarsi dello sparatore fra decine di testimoni, che non erano solo i
festeggianti impauriti e frastornati, ma passanti e poliziotti in una zona
centralissima e presidiatissima della Istanbul europea qual è il distretto di
Ortaköy. Eppure è accaduto, ed è questo un elemento che preoccupa
l’establishment politico, prigioniero di eventi che rischiano di travolgerlo.
Il volto funereo mostrato dal ‘Capo del governo di maniera’ Yildırım in un
intervento televisivo travalicava gli stessi reiterati lutti con cui la popolazione
turca fa i conti ormai settimanalmente. Diventa
lo specchio dell’incancrenirsi d’una situazione che da un anno ha mutato
l’essenza d’una nazione. Una parte, divenuta maggioritaria, della Turchia da quasi
un quindicennio s’è offerta all’uomo che la guida e la vuole tutta per sé,
tanto da aver escluso amici di tempi lontani come l’ex presidente Gül e l’ex
fedelissimo Davutoğlu, già suo ministro degli Esteri, quindi premier, messi da
parte o autoesclusi in una corsa al potere diventata una gara a ostacoli per lo
stesso concorrente unico: l’Atatürk islamista. Che si ritrova assediato da
amici o ex tali e da avversari con cui aveva collaborato e comunque dialogato.
Una particolare qualità accompagna la sua vanagloria: essere pervicace e apertamente
spregiudicato, una sorta di alpinista politico tutt’altro che dilettante che
ama sperimentare e magari aprire vie impervie con tutti i rischi che
comportano. Dei tre fronti che da mesi assillano Erdoğan e il Paese - la
politica estera, i kurdi, l’apparato fethullaçi
- l’uomo del destino dell’Anatolia è al tempo stesso gran cerimoniere e apprendista
stregone.
Stato
terrorizzato -
E’ fin troppo chiaro che i moventi di tanto sangue sparso in terra turca da un
anno e mezzo a questa parte (segnando dal giugno 2015 la conta dell’orrore)
sono legati alle ultime sue mosse politiche. Il panorama internazionale,
pallino del leader turco, ha rappresentato la palestra di un’infinità di
tatticismi che gli hanno fatto avvicinare “primavere arabe” nelle sue componenti
più varie: quella contestatrice delle piazze (Tahrir), l’istituzionale dei
governi (Ennadha e Fratellanza), la strutturale islamica per la quale
sperimentava un modello che trovasse un compromesso fra pragmatismo e
tradizione della Sha’ria. Nell’uso e abuso di tale scenario, compreso fra il
sostegno alla causa palestinese e le diverse alleanze nel ginepraio siriano, la
spregiudicatezza presidenziale viene punita dal jihadismo. L’Isis, che insinua
la matrice combattente per colpire e proliferare, cerca anche terreni dove il
suo seme può germinare. La Turchia è meno prolifica delle aree siriane,
irachene, afghane o pakistane, ma nel suo sogno di grandezza mostra un ventre
molle, paradossalmente offerto dai troppi nemici che il doppiogiochismo
erdoğaniano s’è procurato. E l’omertà degli anni scorsi verso i foreign fighters,
divenuto sostegno pieno a suon di bombe contrabbandate (e scoperte dai cronisti
di Cumhuriyet), s’è repentinamente
trasformato in voltafaccia e adesione a un fronte opposto. In realtà anche le
petromonarchie praticano un doppiogioco verso il Daesh, dicendo di opporvisi e
sostenendo il wahhabismo ispiratore spirituale del jihad, ma attualmente sono
la Turchia e il suo conducator a pagare il conto di sangue. Nella purulenta
piaga siriana è in svolgimento anche un capitolo della questione kurda, e in
contemporanea all’avvio degli attentati terroristi fra Ankara, Istanbul e Suruç-Gaziantep-Diyarbakır
(tre città kurde) c’è stata una ripresa del conflitto aperto fra il combattentismo
di quest’etnia e l’esercito turco. I cui militari hanno riattivato il doppio
binario d’una terroristica repressione-oppressione rivolta alla popolazione del
sud-est del Paese.
Terrorismo
di Stato -
Dalla tarda estate 2015 per tutto l’autunno si sono contati centinaia di
assassini di civili, Cizre martirizzata mostrava decine di cadaveri massacrati
e finanche mutilati. Un assist per la componente dei Falchi della Libertà,
dissidente verso lo stesso Pkk, impegnato in combattimenti diretti coi militari
di Ankara. Rapidamente i colloqui con Öcalan sono diventati un ricordo lontanissimo
e un capitolo chiuso. Ma la questione kurda resta. Erdoğan sa che non può
risolverla incarcerando i kurdi incamminati sulla via di Demirtaş o inzuppando
di sangue le vie del sud-est. Anche perché quel sangue da mesi si riversa
addosso alla sua Turchia, dove Istanbul e Ankara inseguono un macabro derby di
morte con 152 cadaveri contro 166. Eppure il cambio di passo sul versante
siriano, che avvicinano il presidente turco a Russia e Iran sembra dettato solo
dal realismo di aggiornare in senso favorevole la propria sponda di alleanze e
dai suoi tatticismi interni e internazionali. A Putin Erdoğan chiede garanzie contro
quel Rojava che il Daesh in rotta non sembra poter offrire a lungo. E se gli
Stati Uniti continuano ad armare i combattenti delle Unità del popolo, lui
lavora per un ritorno allo status quo
ante (magari anche conservando il potere ad Asad), così da impedire
evoluzioni favorevoli a quel progetto politico kurdo. Sull’impervio percorso intrapreso
restano altri ex alleati, quei gülenisti con cui ha condiviso le infiltrazioni
degli anni Novanta nel corpaccione dello Stato kemalista, più volte ripulito
nei suoi apparati repressivi e della forza dai militari vecchio stile
sostituiti da islamisti. Quanti seguaci dell’odiato imam della Pennsylvania
continuano a operare in seno a polizia, forze armate, Intelligence dopo retate,
arresti, epurazioni contate a migliaia dal mattino del 16 luglio scorso non è
dato sapere. Potrebbero esser loro a sabotare o remare contro il sistema
dell’Akp. Oppure inseguire il fantasma di questo nemico ha fatto dissanguare a
tal punto quegli organismi che ormai paiono zombies, incapaci di reagire ad
attentati, agguati, infiltrazioni in una nazione colpita, sofferente, stordita,
e negli stessi vertici statali incapace a trovare soluzione a reiterati drammi.
Da ieri è caccia aperta a un attentatore, la cui cattura potrebbe almeno offrire
un pizzico di credibilità ai più insicuri apparati di sicurezza oggi in
circolazione.
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