Con l’approssimarsi dell’era Trump un gruppo di
analisti che s’è occupato dell’accordo sul nucleare iraniano - uno dei
pochissimi risultati che l’accoppiata uscente Obama-Kerry ha potuto vantare -
inizia a porsi il problema del possibile terremoto che il nuovo inquilino della
Casa Bianca potrebbe portare nella politica estera statunitense. Dopo una
campagna elettorale al fulmicotone e un più “rassicurante” approccio seguìto
alla vittoria, nell’avvicinarsi dell’ora del potere il 45° presidente
statunitense lancia stoccate capaci di preoccupare anche uomini di sponda
repubblicana o Brennan, ex capo della Cia. Nella maggiore crisi mondiale in
corso, quella siriana le cui sorti riguardano un’emergenza umanitaria senza
precedenti che coinvolge un intero popolo diviso fra profughi esterni e
interni, sfollati finora scampati alle bombe ma non agli stenti, civili divisi fra
pro e contro il regime di Asad, più assetti geopolitici internazionali e
regionali con logiche di espansione, controllo e interesse di parte, giù fino allo
spettro del Daesh combattuto da tanti ma icona per ogni sorta di jiahadsmo, uno
degli attori impegnati che può risultare un interlocutore in ipotetici colloqui
di pace è appunto l’Iran. La nuova amministrazione statunitense potrebbe
continuare a disinteressarsi della faccenda, seguendo l’ondivago opportunismo
di chi l’ha preceduta o cambiar passo. Un approccio accorto dovrebbe evitare
quegli eccessi ventilati da Trump che oscillano dall’isolamento a un iper
protagonismo aggressivo.
A tre giorni
dall’insediamento a Washington l’attenzione si sta concentrando sull’accordo
sul nucleare iraniano. Prospettarne una revisione, dopo che Teheran s’è resa
disponibile a contenere il suo programma di arricchimento dell’uranio, sembra
un autogol privo di senso. La fase
pragmatica che ha prodotto la presidenza di Rohani, chierico aperto a una
diplomazia dialogante, costituisce nel regime degli ayatollah più abbordabile
dei panorami interni. La rimozione delle sanzioni da parte occidentale
restituisce al Paese un po’ di respiro, avvantaggiando quell’economia sostenuta
dalla vendita dei prodotti energetici; così com’era accaduto a fine anni Novanta
quando, anche grazie a introiti simili, il blocco riformista di sostegno a
Khatami riusciva a parlare anche di diritti. Durò poco, ma è tuttora ricordato
come una fase di speranze internazionali e nazionale. Ovviamente secondo la
visione d’una parte del Paese, perché i conservatori sbarrarono la via a ogni
confronto interno ed esterno. In quest’ultimi mesi il mercato petrolifero
iraniano s’è riavvicinato ai livelli pre sanzioni (i dati parlano di circa 4
milioni di barili al giorno) e le finanze recuperano 11 miliardi d’investimenti
stranieri, sebbene la carenza di legami bancari stia penalizzando questa
ripresa (fonte Joint Comprehensive of
Action Plan). L’azzeramento dell’accordo sul nucleare è tutt’altro che
certo, ma non si può escludere una graduale erosione, magari perseguita coi
colpi a effetto del presidente-tycoon. Il percorso nucleare iraniano, non è un
segreto per nessuno, ha risvolti di carattere civile e militare, gli accordi
congelavano il secondo. Una rimessa in discussione dei patti può avere ricadute
su una sfera che i rappresentanti di Teheran hanno sempre considerato afferente
alla difesa. Nell’incandescente quadro regionale, coi territori di Siria e Iraq
in fiamme, distinguere fra interessi
espansivi e difesivi può dar adito a incomprensioni assolute.
Il neo presidente Usa
potrebbe essere stuzzicato dal desiderio di entrare da protagonista sulla scena
mondiale e farlo con lo stile dell’elefante nella cristalleria, che comunque
rientra nella tradizione statunitense di varie epoche. La formazione del suo
staff ha già fatto venir la pelle d’oca, accanto a sodali e affaristi collocati
in ruoli di primo piano, come l’uomo Exxon Tillerson, promosso Segretario di
Stato e l’ex Goldman Sachs Bannon, Capo della strategia presidenziale
nonostante, o forse proprio in virtù, degli orientamenti razzisti che lo fanno
apprezzare dal Ku Klux Klan, troviamo un duro vecchio stampo: il deputato del
Kansas Pompeo. A lui è stata offerta la carica di direttore della Cia, e proprio
lui ha più volte dichiarato di voler seppellire l’accordo nucleare con l’Iran.
Ecco basterebbe questo trio - e taciamo su collaboratori che vanno dal
militarismo delle Rendition (Mattis) all’islamofobìa spinta (Flynn) - a
ispirare il presidente Usa per una passata di spugna sull’accordo. Gli altri
interlocutori di quel patto (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, più
Germania) dovrebbero scoraggiare fughe in avanti degli Usa, ma non è detto che
lo faranno o ci riusciranno. L’ipotesi di un simile passo riaprirebbe un fronte
in un Medio Oriente squassato e sarebbe una vera manna per i conservatori
iraniani in relazione alle prossime presidenziali di maggio. La riconferma di
Rohani non è affatto certa e la dipartita di Rafsanjani indebolisce i moderati.
Seguiremo questo cammino perché la partita fra tradizionalisti e riformatori,
che nella Repubblica Islamica Iraniana, dura da circa trent’anni, non s’è mai
chiusa.
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