“…Nulla è
più bello, più vero della vita. Prendila sul serio ma sul serio a tal punto che
a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi non perché restino ai tuoi
figli ma perché non crederai alla morte pur temendola, e la vita peserà di più
sulla bilancia”. Non bastano a sanare una ferita che sanguina da Istanbul a
Diyarbakır, passando per Ankara, i meravigliosi versi di Nâzim Hikmet, un turco
nato altrove e altrove morto, con radici esterne ma innamorato come pochi della
sua terra. Da un anno e mezzo quattrocentoquindici sono le vittime solo di
attentati, cui s’aggiungono i morti scaturiti da scontri fra oppositori al
regime di Erdoğan e forze dell’ordine. Più i civili trucidati dai soldati che
combattono i militanti del Partito kurdo, uccidendo indiscriminatamente anche
vecchi e bambini. Esistono molte mani omicide. Quelle dello Stato e dei guerriglieri
kurdi hanno ripreso a eliminarsi reciprocamente, dopo aver giurato che mai
sarebbero tornati sulla sanguinaria via percorsa fino a vent’anni addietro.
Invece la boria di potere che caratterizza l’attuale leadership turca ribatte
una strada funesta per la nazione e, forse, anche per lo smisurato personalismo
che caratterizza il progetto islamista e autoritario dell’uomo che vuole
imitare Atatürk e sogna di superarlo.
Qualcosa di molto più della delicata tristezza (hüzüm) avvolge i luoghi tanto amati da
un altro intellettuale che lascia nelle sue pagine quel senso di Turchia
moderna, già in buona parte scalzata dal Paese voluto dall’attuale guida
politica. Poco e niente si conserva delle viuzze, delle balconate ottomane in
legno, resistenti per secoli addirittura ai pericoli del fuoco; l’urbanizzazione
islamica prevede al massimo moschee monumentali, affiancate (l’eresia non è
contemplata) da centri commerciali e magari grattacieli, non solo sulla moderna
sponda asiatica, ma fin dentro il cuore cittadino. Le vicende del Gezi park
l’hanno mostrato. L’Istanbul ripetutamente insanguinata è percorsa soprattutto
da un senso di paura (kormak),
diverso anche da quello degli anni bui di golpe, militari e posti di blocco,
presenti nell’innocente memoria di un amante perduto per la meravigliosa Füsun,
qual era il protagonista del Museo di Çurcuma, descritto da Pamuk. Quel che
rimane, e si preserva almeno per la gioia dei turisti, è smarrito nel vuoto creato
anche in metropoli di milioni di persone dalla scia del terrore. Da mesi il
Paese, sotto l’assediato delle deflagrazioni di jihadisti e combattenti, è
incapace di difendere il territorio e i visitatori scarseggiano. Dopo Palmira
il Daesh assedia altri tesori della nostra vita.
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