Si chiama Assadullah Sarwari, è stato a suo modo
un signore della guerra, fedele esecutore e sterminatore degli oppositori,
alcuni testimoni sostengono anche con le proprie mani. Sopravvissuto a tutto: invasioni,
guerra civile, vendette, pena capitale, ergastolo, galera. Da qualche giorno
può girare liberamente nell’Afghanistan che per realismo politico, e per
cavilli legali, favorisce i colpi di spugna. Sebbene la pena inflitta l’abbia
scontata, grazie però ai vari sconti ricevuti. La sua storia va a ritroso fino
al 1978, quando Sarwari aveva 27 anni ed era membro del Partito comunista
afghano, ala Khalq in costante lotta con un’altra componente del partito
chiamata Parcham. Dall’aprile 1979 l’uomo gestiva l’Intelligence nazionale e
nel settembre partecipò al complotto per assassinare il premier dell’epoca
Hafizullah Amin. La trama fallì e lui riparò in Unione Sovietica. A seguito
dell’intervento delle truppe di Mosca che invasero l’Afghanistan nel dicembre
1979, Sarwari tornò in patria, ricoprendo incarichi di vice presidente, vice
premier e ministro dei trasporti del governo filo sovietico di Babrak Karmal.
Ma la carriera, sviluppata all’ombra dell’ultimo protettore, durò poco. Nel
1980 Karmal lo rimosse dall’incarico spedendolo a far l’ambasciatore in
Mongolia.
Non bastarono i mesi in cui ricoprì posizioni di
vertice per cancellare un curriculum di oppressore di rango, visto che Sarwari s’era
macchiato di nefandezze coi reclusi della prigione di Pul-e Charkhi a Kabul.
Comunque la buona sorte, il fiuto esistenziale o i patteggiamenti coi nuovi padroni
dell’Afghanistan lo misero al riparo da faide nel sanguinosissimo periodo delle
lotte intestine (1992-1996) e del seguente governo talebano (1996-2000). Lui se
ne stette in galera, per un anno a Kabul, poi nel Panjshir fino all’invasione
statunitense e nei primi anni della presidenza Karzai. Diversamente che contro i
maggiori signori della guerra nei confronti di Sarwari venne formalizzato un
processo, che nel 2007 in primo grado lo condannava a morte per assassini,
torture, sparizioni di migliaia di concittadini. L’imputato si appellò,
sostenendo che nel suo rango non doveva essere giudicato da un tribunale civile
bensì da una Corte militare. La richiesta venne accolta e quest’ultima lo punì più
per l’abuso del ruolo che per la gravità dei crimini comminandogli 19 anni di
reclusione. Nel suo processo il “Piano governativo per la riconciliazione
nazionale” del 2005 e il “Piano parlamentare per l’amnistia” varato nel 2008
sono diventati un appiglio per evitare l’imputazione più pesante che
riguardava i ‘crimini di guerra’.
Secondo alcuni analisti Sarwari ha aggirato l’imputazione
anche per mancanza di chiarezza dei codici e per l’assenza di casistica, visto
che per trent’anni la giustizia interna non ha voluto fare i conti coi propri
orrori, sottostimati anche dai governi “amici” occidentali che a loro volta
dovrebbero rispondere di crimini di guerra compiuti dal 2001 su quel
territorio. Le stesse documentazione e il peso delle testimonianze vengono
inficiate; le prime da attacchi informatici che interdicono la circolazione in
rete della documentazione prodotta da strutture internazionali come l’Afghan Independent Human Rights Commission.
Le seconde, raccolte dal Saajs (Social
Association Afghan Justice Seekers), subiscono pressioni di gang armate, come quella che ha
di recente accolto festosamente all’aeroporto di Kabul un altro imputato (tal
Zardar) sotto gli occhi dei poliziotti che non sono intervenuti. Le pene
vengono ridotte o azzerate, mentre testimoni e familiari delle vittime possono
subire nuove violenze. Tutto è asservito all’impunità ratificata nei mesi
scorsi dall’accordo sottoscritto dal presidente Ghani col sovrano dei signori
della guerra, quel Gulbuddin Hekmatyar atteso a incarichi di governo o a un
proprio governo parallelo da tessere coi talebani che, fra una bomba e l’altra
(un attentato ieri ha fatto 30 vittime vicino al Parlamento) rialzano la posta.
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