Con la morte di Ali Hashemi Rafsanjani,
stroncato da un attacco cardiaco a 82 anni, se ne va un pezzo centrale della
Rivoluzione Iraniana, un chierico vicino a
Khomeini che aprì il Paese al post-khomeinismo. Un’apertura giocata con
astuzia, e interesse, fra l’osservanza delle direttive del Ruhollah e uno sguardo rivolto al futuro. Attraverso un percorso insidioso,
compiuto al fianco e in competizione alla Guida Suprema Ali Khamenei di cinque
anni più giovane. I due scalarono i più alti ranghi del potere per decisione
dello stesso Khomeini che, fra il 1988 e l’89, stravolse precedenti decisioni
alcuni mesi prima di morire. Fece dimettere il delfino Ali Montazeri,
presidente negli anni Ottanta dell’Assemblea degli Esperti (massimo organo del velayat-e faqih che elegge la Guida
Suprema), che si mostrava critico verso la guerra con l’Iraq e sulle esecuzioni
capitali di ‘nemici della rivoluzione’ e lo costrinse a un ritiro meditativo a
Qom. Ma l’uomo del destino dell’Iran islamico fece molto di più. Fu lui a
volere una modifica dei requisiti per diventare Guida Suprema che non previdero
più il titolo di marja’-e taqlid
(guida da imitare, qual era Montazeri), ma accettarono un hojatoleslam (qualifica dei religiosi di medio rango che esprimono
giudizi legali). Grazie a questo Khamenei potè accedere a quel ruolo,
contestualmente Rafsanjani diventava presidente della Repubblica.
I due divisero un comune periodo di diarchia:
Rafsanjani dopo una prima elezione dal 1989 al ’93 ne infilò una seconda fino
al ’97, fu anche presidente del Parlamento e dal 2007 al 2011 presidente dell’Assemblea
degli Esperti. I due non si amarono mai e lessero la politica interna ed estera
da sponde diverse, emanazione dell’ala conservatrice del clero qual è Khamenei,
mentre Rafsanjani costruì quel variegato pragmatismo che ne ha fatto per quasi
un quarantennio il fulcro delle vicende iraniane palesi e occulte. L’origine
benestante della famiglia Rafsanjani (imprenditoria e commercio di prodotti
agricoli) consentì al giovane Ali studi teologici a Qom, dove fu allievo di
Khomeini. La vicinanza si trasformò in ossequiosa militanza quando, nei primi
anni Sessanta, il clero sciita s’era posto in aperto contrasto con lo Shah,
fino all’esilio forzato subìto da Khomeini. La gestione dello Stato nel primo
mandato presidenziale di Rafsanjani dovette fare i conti con la pesante crisi
economica frutto del lacerante decennio di guerra contro l’Iraq di Saddam
Hussein. Lo stesso piano di nazionalizzazione condotto per tutti gli anni
Ottanta dai governi radicali (Moussavi fu premier per otto anni) aveva prodotto
un accentramento di risorse in mani politico-amministrative non sempre scevre
da fenomeni corruttivi.
Rafsanjani lanciò un piano di ricostruzione
aprendo all’iniziativa privata, interna ed estera anche verso l’Occidente.
Certo, dovendo mediare con gli amici e alleati di potenze imperialiste con cui
l’Iran della rivoluzione era entrato in conflitto, dagli Usa sfidati nei 444
giorni di sequestro dei 52 addetti all’ambasciata americana di Teheran
(1979-81), alla fatwa contro lo
scrittore indiano-britannico Rushdie lanciata da Khomeini in persona (1989). Ma
l’abilità diplomatica di Rafsanjani inizialmente non scontentava nessuno: la
privatizzazione favorì lobbies interne come quelle del clero e della
consolidata corporazione dei Pasdaran le cui fondazioni prestavano attenzione
ai bisogni sociali degli strati più poveri della popolazione (mostazafin), si strizzava l’occhio ai bazari, il ceto medio dei mercanti, la
cui presenza millenaria nella nazione che fu impero ne continua a fare una
componente attiva dell’economia con riflessi sulla politica. In una nazione
diretta dal clero gli organismi come le bonyad,
fondazioni con intenti finanziari, hanno ricevuto impulso espansivo da questa
politica liberalizzante, in tal modo Rafsanjani - che comunque teneva d’occhio
anche gli investimenti delle aziende di famiglia e favoriva questo genere di
accumulazione, - accontentava la stessa ala conservatrice del clero, vigorosa
sostenitrice di Khamenei. Più che sul versante economico, che ebbe comunque
scossoni non indifferenti, con un’inflazione galoppante e proteste popolari nel
1992, fu la ricerca di nuove vie di costumi a creare problemi a Rafsanjani.
E gli ayatollah conservatori che aveva rabbonito
con gli affari delle bonyad, come
tanti altri affaristi interni additati dai chierici radicali come un pessimo
esempio di trame corruttive, si strinsero attorno alla Guida Suprema nel
criticare le aperture che la modernizzazione di Rafsanjani apportava sul fronte
dell’istruzione e delle libertà individuali. A metà degli anni Novanta l’aumento
del numero degli studenti fu sensibile, le ragazze erano in prima fila e
volevano restarci, durante il secondo mandato uscirà allo scoperto anche la
figlia del presidente, Faezeh Hashemi, impegnata con una rivista femminile e
nel 2000, durante il secondo mandato presidenziale del riformista doc Khatami,
addirittura deputata. Se l’equilibrismo paterno, oscillante fra tradizione e
innovazione condite d’un sano realismo, restano appese alla real politik che
caratterizza la maggior parte del ceto iraniano (ne sono un esempio l’attuale
presidente Rohani e il ministro degli esteri Zarif) l’accusa che ha continuato
a seguire Rafsanjani in tutto il suo percorso pubblico è chiaramente quella
d’essere stato il ‘cavallo di Troia’ del riformismo. Questo può sfociare in un
radicalismo protestatario che, come l’Onda verde giovanile del 2010, rischia
d’incrinare tratti fondanti della Repubblica Islamica che i conservatori
considerano indiscutibili. Il confronto-scontro fra le due componenti prosegue,
si riproporrà nelle presidenziali del maggio prossimo. E come i Mousavi e
Karoubi non vogliono scomparire di scena, egualmente la vecchia guardia
reazionaria si ripropone compatta. Nei mesi scorsi ha piazzato
l’ultranovantenne Jannati in cima all’Assemblea degli Esperti, proverà a
scalzare Rohani al quale stavolta mancherà l’ombra rassicurante di Rafsanjani,
l’ayatollah del compromesso che ne aveva favorito l’elezione.
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