Marwa è andata sola davanti all’ingresso dell’università di Kabul. In realtà una sorella celata in un’auto s’è appostata a distanza e con un cellulare l’ha filmata da dietro, evitando di farsi vedere. Le guardie talebane all’ingresso della struttura inizialmente non hanno dato peso a quella giovane che innalzava un cartello su cui c’era scritto “leggere”. Poi alcuni miliziani si sono avvicinati. Lei è rimasta lì. Non l’hanno percossa, ma l’hanno dapprima dileggiata poi insultata. Questo ha raccontato in seguito la diciottenne all’agenzia Associated Presse. “Mi hanno detto cose davvero brutte, io sono rimasta calma”. Un gesto non isolato, perché nei giorni precedenti alla diffusione della notizia che vietava alle ragazze la frequentazione dei corsi accademici c’erano già state proteste, seppure a piccoli gruppi. Le studentesse erano state disperse, minacciate di arresto, anche dei colleghi maschi che avevano levato la voce per sostenerle erano stati azzittiti. Marwa è tornata sul luogo dell’esclusione volendo dimostrare che pure una singola persona può non chinare il capo, può resistere e non farsi intimidire. “Non voglio essere imprigionata perché ho grandi sogni da realizzare” ha dichiarato al corrispondente di AP che è andato a cercarla, sottolineando comunque che il percorso di studio, che per lei e quelle come lei, rappresenta il viatico dei sogni non può esserle strappato via. Non si arrenderà mai a questo destino. Sa che la giustificazione del ministero dell’Istruzione per il divieto (la mancata osservanza rigorosa del codice di abbigliamento) è una scusa. Come già lo era stata la presunta carenza di stoffa per confezionare le uniformi alle studentesse che aveva portato alla loro esclusione dagli istituti superiori. E dal marzo scorso l’escalation: divieto di frequentare i parchi, le palestre, i bagni pubblici. La reclusione nelle abitazioni dove restare confinate e destinate solo ai lavori domestici. Marwa non ci sta. Alza il cartello, leggere per lei è come respirare. Marwa non vuole morire soffocata.
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