Il massacro, tre vittime e quattro feriti, avvenuto stamane in un caffè e centro culturale kurdo nel cuore di Parigi (rue d’Enghien, X arrondissement) potrebbe non avere solo i risvolti razzisti su cui indaga la polizia. Sebbene il sessantanovenne sparatore-assassino che è stato fermato avesse un precedente inquietante: un anno fa aveva compiuto un attacco, non mortale, in un campo profughi. Brandiva una spada e vomitava odio razziale. C’è chi rammenta un altrettanto sanguinario assalto verificatosi un decennio addietro: il 3 gennaio 2013. Sempre in un circolo culturale kurdo vennero rinvenuti i cadaveri di tre militanti, si disse legate al Partîya Karkerén Kurdîstan (Pkk). Erano quelli della navigata Sakine Cansiz, che frequentava il leader Öcalan, e di due più giovani collaboratrici. L’assassinio venne svelato come un’esecuzione compiuta da un infiltrato che collaborava coi Servizi di Ankara, tal Omar Guney, che nell’ambiente della diaspora kurda francese prestava opera di autista e tuttofare. L’operazione divenne una sorta di pietra tombale ai colloqui ancora in corso fra i vertici del Mıt e Öcalan in persona, aprendo quella frattura diventata insanabile fra lo Stato turco e le formazioni armate kurde che ripresero la lotta armata, non solo nella roccaforte di Qandil. Ma se un decennio fa Erdoğan mutava linea, passando dal dialogo allo scontro aperto con kurdi, opposizione giovanile di Gezi park, ex alleati gülenisti, un pezzo di esercito e magistratura, la conflittualità interna pur presente e sempre elevata non dovrebbe venir rinfocolata da nuove tensioni. L’anno che si apre costituisce un momento di svolta per il leader e l’intera nazione turca, rappresentato dalle elezioni di giugno - politiche e presidenziali - attorno alle quali si muove un doppio sogno. Per Erdoğan l’ennesima consacrazione a presidente, sarebbe la terza ma a seguito della Costituzione varata nel 2017 diventerebbe la seconda. Per l’opposizione la possibilità di scalzare lui e l’egemonia stabilita ormai da un ventennio dall’Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp). Tutto ciò nell’anniversario di cent’anni della Turchia moderna, quella kemalista che se non ha completamente mutato pelle, risulta spaccata in due, non solo attorno ai simboli islamici. E’ in questo contesto, con un’opposizione che cerca di battere il politico invecchiato ma tuttora perno della scena interna e internazionale, che rinfiammare il pagliaio della corposa minoranza kurda con una misteriosa mattanza può diventare un azzardo. Qualora questa si rivelasse l’ennesima operazione di Intelligence. Per l’accusa di terrorismo e fiancheggiamento al Pkk alle elezioni mancherà la metà degli esponenti del Halkların Demokratik Partisi (Hdp), messa in galera dalla repressione degli ultimi anni, né probabilmente il gruppo potrà esprimere un proprio candidato alla carica di Capo dello Stato. Però la comunità kurda voterà, e più dell’astensione, un voto indirizzato a elementi anti Erdoğan può risultare una tentazione utile. Come accadde alle amministrative del 2019, quando il partito di maggioranza perse i sindaci delle maggiori città anche per il sostegno kurdo ad alcuni esponenti del Cumhuriyet Halk Partisi (Chp). Il più illustre dei quali, sindaco di Istanbul, il repubblicano İmamoğlu che potrebbe insidiare Erdoğan nella corsa alla presidenza, è stato di recente condannato dalla magistratura e rischia l’esclusione dalla campagna elettorale. Nella Turchia che arde di suo, nuovi inneschi non possono che allargare l’incendio.
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