Sarà pure una forzatura cercare il riscatto d’un popolo, che fu conquistatore prima d’essere ridotto a colonia novecentesca, ma il Marocco dalla sfavillante divisa rossa, che incrocia sul suo vigoroso cammino calcistico qatariota, la Francia, acquista un sapore ultra sportivo. Lo evidenziano non solo la naturale esultanza ancora sul terreno di gioco dei protagonisti dell’impresa di eliminare il Portogallo, dall’En-Nesyri che ruba aria e palla al portiere lusitano al Boufal danzante con la mamma in kaftano, e tutte le feste di casa. Ma ancor più forte lo grida l’enorme comunità migrante insediata in Europa. Le seconde e terze generazioni diventate un milione e mezzo in Francia, settecentomila in Spagna, mezzo milione in Italia. E via andare dove ti porta il lavoro. Anche quello calcistico, che definire lavoro è un lussuoso eufemismo persino per chi arriva in alto come i calciatori di questa nazionale maghrebina entrata nella storia d’uno sport considerato europeocentrico, pur quando strabilia grazie alle formazioni latinoamericane. I datori di lavoro di metà dei “rossi” hanno le griffe del Siviglia, Paris Saint-Germain, Standard Liegi, Ajax, Bayern Monaco, Fiorentina, le squadre del football miliardario con ingaggi certamente più floridi del Wydad Casablanca. Offrono, a chi è bravo e fortunato, la gloria degli stadi e dei conti bancari. E si nutrono di qualità atletiche e tecniche della generazione che sa trattare il pallone come e più dei padroni del pallone. La sfida ora in programma per la gloria che il coach del miracolo, Walid Regragui, dice si possa raggiungere sollevando addirittura Coppa dorata, è quasi un derby. Sicuramente lo è per lui nativo di Corbeil-Essonnes, che lancia la carica del manipolo di giocatori franco-ispano-belgio-italico-marocchini che hanno respirato più smog europeo che brezza dei ribat.
Nella disputa, del colore oltre che del pallone, i “blues“ rispondono con l’integrazione dei Mbappé e dei Pogba, origini camerunensi e guineane, ma una vita parigina, al più torinese per il centrocampista. L’idea post-coloniale che dà la nazionale francese è la multietnìa dello sport, cui non necessariamente segue un’idea altrettanto unitaria e comunitaria. Tale è il sentore di banlieue periodicamente incendiarie e di quella distanza sociale vissuta tuttora dai giovani che non godono del beneficio milionario del pallone. Nel calcio che unisce e in quello che divide di queste giornate d’ardore agonistico si può godere del funanbolismo gestuale, dell’azione fulminante, della rivalsa sul passato coloniale che portava in guerra trisavoli e nonni, all’estero padri e fratelli, e giustamente festeggiare per ulteriori successi. Perché i calciatori africani possono puntare alla medaglia d’oro come da tempo fanno i propri colleghi dell’atletica. Chiunque vincerà non dovrebbe dimenticare africani e asiatici crepati sotto il sole dei preparativi mondiali (6.700 è l’orripilante conteggio del britannico Guardian), né gli scandali tangentizi di politici (Socialisti europei) che vantavano il buon governo dell’emiro al-Thani nientemeno che nei diritti dei lavoratori stranieri. Si può, anzi si deve, tenere a mente quel ‘colonialismo di ritorno’ che non rende libero il Marocco del sovrano Muhammad VI. “Modernizzatore” come viene ricordato per aperture riformiste sul versante religioso, di diritto di famiglia e di genere. Ma quella pulizia politica promessa sin dall’insediamento nel 1999 s’è basata più su un contenimento del ruolo assillante di polizia ed esercito che di effettiva trasparenza. Al di l’ha di cooptare un po’ tutti i partiti (conservatori, islamisti, socialdemocratici) nei governi che si sono succeduti da un ventennio, il re del Marocco ha sempre pensato esclusivamente ad arricchirsi. Come papà Hasan II del resto.
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