Aver mantenuto per due anni segreta la scomparsa del
mullah Omar, deceduto per tubercolosi a Karachi nel 2013, aveva un senso per i
taliban. Provava a quietare gli animi. Alle differenze fra la componente
afghana e quella pakistana dei turbanti si sommavano ulteriori spaccature e
diversificazioni che sarebbero venute a galla nella successione e nei tentativi
di raccordo fra i vari gruppi. Dopo l’annuncio della dipartita dell’uomo-simbolo,
la Shura impiegò mesi prima d’indicare in Akhtar Mansour la nuova guida. E
subito avvenne la frattura con Mohammad Rasoul staccatosi dalla maggioranza
talebana, che comunque perdeva quasi immediatamente il nuovo capo, ucciso in
un’imboscata dai droni statunitensi che dall’alto ne seguivano l’auto in
viaggio fra Afghanistan e Pakistan. Si parlò di un’operazione gestita dalla
Cia, con l’aiuto in quel caso dell’Isi pakistana, che evidentemente non gradiva
la leadership prescelta dalla maggioranza degli studenti coranici armati.
Rasoul formò un organismo denominato Emirato Islamico
dell’Alto Consiglio dell’Afghanistan, considerato da vari osservatori una
pedina iraniana in terra afghana. Il fatto che in alcune circostanze il gruppo
avrebbe simpatizzato con azioni estere dell’Isis prospetterebbe un diverso
orientamento, sebbene Rasoul abbia più volte affermato che per il Daesh in
territorio afghano non ci sia alcuno spazio. Ultimamente il portavoce di
Rasoul, il mullah Abdul Niazi ha attaccato il dialogo aperto a Mosca fra l’Alto
Consiglio di Pace Afghano e i talebani che dopo Mansour sono guidati da
Akhundzada. Questi, pur considerato un mullah molto conservatore, è giunto a
spedire propri rappresentanti sia in Qatar sia nella piazza di colloqui. Mansour
nella sua breve vita da leader non si mostrava disposto a dialoghi, e forse
anche per questo è stato liquidato.
Akhundzada sembra riprendere il doppiogiochismo del più
illustre Omar, infatti i talib hanno proseguito azioni militari pur nei mesi in
cui le trattative con vari attori erano (e sono) aperte. Loro risultano pur sempre
più tattici dei tatticismi studiati da chi li vuole usare. Fra i grandi la Cina
fa parte delle potenze consultate attorno a presente e futuro dell’Afghanistan,
e per gli affari in corso (sfruttamento di giacimenti di rame e terre rare
offerto per i prossimi 25 anni) s’affida al modello statunitense con tanto di
governo fantoccio che patteggia una soluzione politica coi taliban purché il
business prosegua. Bisogna capire quale sarà il ruolo di Mosca. La politica
estera russa dell’ultimo quadriennio in Medio Oriente è risultata al tempo
stesso pragmatica, cinica e vantaggiosa (per sé).
Putin ha ridato spazio alla grandezza, un tempo sovietica,
seppure nel cuore dell’Asia quel passato riverberi la sua immagine peggiore,
basata su invasione e scacco subìto da quella che era vista, in patria e non
solo, come un’Armata invincibile. Sebbene tanti volti e pensieri, ormai passati
al mondo dei più che diedero vita alla resistenza mujaheddin, divenuti poi
signori della guerra e in certi casi talebani, si tramandino sentimenti anti
russi, alla stregua degli attuali sentimenti anti americani, potremmo scoprire aperture del Cremlino ai fondamentalisti. Ricambiate da quest’ultimi.
Nella frammentazione della galassia dei turbanti, nel doppiogiochismo della
geopolitica, nella tattica dei veti e nelle dinamiche mai morte di amici e nemici
fra le parti, l’orizzonte afghano potrà proporre versioni aggiornate di
talebani di governo e di combattimento, a favore di potenze mondiali e
regionali. E’ già successo, può continuare. Gli unici per cui tutti costoro non
combattono mai sono i cittadini afghani.
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