Il presidente golpista egiziano al Sisi era due giorni fa a
Palermo al vertice sulla Libia organizzato dal governo italiano. Sosteneva la
posizione d’un militarista come lui, il generale Haftar, boss delle milizie cui
s’affida la Francia per riportare ‘ordine’ nel Paese del dopo Gheddafi che nel
2011 ha contribuito a scompaginare. Un’assise che aveva ben altro a cui
pensare, discutendo di macro geopolitica rispetto agli scempi che, comunque,
proprio questa geopolitica provoca nelle singole comunità e realtà nazionali.
E’ ovvio che nessun premier, nessun rappresentante istituzionale sia uscito dal
tema, riferendosi anche a questioni che coinvolgono la vita quotidiana nei
Paesi che si dice di voler aiutare. Lo potrebbe fare la libera stampa, quella
odiata dai politici di ieri e di oggi. Ma al di là della levata di scudi contro
gli sguaiati epiteti rivolti a quel che resta, in ogni caso, una corporazione
fior fior di colleghi non hanno preso la palla al balzo per ricordare - magari con
un servizio, un articolo, il semplice richiamo d’una colonna - la macchia
insanguinata che il generale egiziano porta con sé, qualsiasi abito indossi.
La macchia dell’omicidio Regeni, perpetrato dai suoi
collaboratori, e coperto con miserabili depistaggi dai vertici del Cairo,
depistaggi e omertà che tuttora seguono il loro corso in opposizione al
desiderio di libertà e giustizia richiesta dai genitori del ricercatore e da
migliaia di attivisti in Italia e all’estero. Avrebbero potuto - i colleghi e
le loro preziose testate che occorre difendere dagli assalti di chi ama il
bavaglio - raccontare storie come quella delle ultime trentuno vittime,
speriamo solo incarcerate (sic), che il ‘sistema Sisi’ ha prodotto nel grande Paese
arabo. La vicenda risale solo a due settimane fa ed è stata evidenziata dalle
Ong, che sempre con maggiore difficoltà denunciano la repressione diffusa in
Egitto, perché da tempo anch’esse sono colpite da questa repressione. Nella
notte del 1° novembre scorso la sessantenne Hoda Abdelmonem, legale presso la
Suprema Corte Egiziana di Cassazione, ha subìto nella propria abitazione del
Cairo l’irruzione di venti agenti della National Security Agency. E’ stata
portata via senza mandato d’arresto, nonostante le rimostranze della figlia
maggiore, ed è rinchiusa in una delle prigioni che “ristabiliscono l’ordine” in
quel Paese.
L’avvocato veniva fermata, assieme a una trentina di persone, per
aver offerto copertura legale ai familiari di individui, che egualmente erano
state fermati, sequestrati e di cui non si sa più nulla. L’accusa è: attentato
alla sicurezza della nazione e, nei casi più gravi, terrorismo. Prima di lei,
prima del rapimento e dell’assassinio di Regeni, sono stati effettuati migliaia
di sequestri illeciti, è il sistema che al Sisi ha ereditato da Hosni Mubarak,
altro militare che ha usato la carica di presidente per difendere la lobby e
schiacciare la popolazione che gli si opponeva. La figlia di Abdelmonem che ha
assistito al sequestro, oltre a manifestare preoccupazione per la madre malata
e bisognosa di cure per il rischio di trombosi, ha riferito ad amici che gli
agenti cercavano in casa documenti relativi alle procedure, proprio di
sparizione di persone, trattate dall’avvocato. Dopo aver perseguitato per anni
l’opposizione interna, sia islamica (la Fratellanza Musulmana, ma non i gruppi
salafiti) sia laica, l’attacco del regime è stato rivolto all’informazione, e
ora all’attivismo dei diritti (anche dei gruppi caritatevoli) e ai legali che
lo sostengono. Quando sono coinvolti soggetti noti come Abdelmonem questi
sequestri riescono, in qualche modo, a venire a galla. In tanti altri casi
no. Ma il silenzio risulta sempre complice.
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