Sordo a ogni appello di
libertà il presidente turco Erdoğan ha respinto l’appello della Corte europea
dei diritti umani gli aveva rivolto in merito al caso Demirtaş. Il
co-presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp) venne arrestato due anni
or sono a seguito dell’estensione a ogni opposizione politica della legge
marziale adottata dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016. Il
bersaglio primo era stata l’organizzazione gülenista diffusa in molte strutture
dell’apparato statale: esercito, polizia, magistratura, istruzione, burocrazia
alta e bassa. Ma accanto alle decine di migliaia di persone arrestate ed
epurate dai pubblici incarichi il governo dell’Akp e il presidente in persona
hanno cercato una vendetta diffusa, rivolta anche a parlamentari
dell’opposizione com’è Demirtaş. A lui si attribuiscono rapporti col Partito
kurdo dei lavoratori, messo al bando in Turchia e considerato organizzazione
terrorista anche da Stati Uniti e Unione Europea. Per questo motivo il leader
dell’Hdp è minacciato d’una pena di 142 anni di detenzione. I vertici dello
Stato turco snobbano l’invito della Corte di Strasburgo, sostenendo di non sentirsi
affatto condizionati da quegli
orientamenti che considerano le accuse rivolte a Demirtaş un’ingiustificata
interferenza con la libertà di espressione e di opinione. Così le porte delle
galere turche, che rinchiudono giornalisti, intellettuali, oltreché oppositori
politici, serrano anche la libera circolazione e il ritorno all’attività
politica del quarantacinquenne capo della formazione che fra il 2013 e il 2015
aveva compiuto un’avanzata diventando il terzo partito turco. Una posizione
conservata al cospetto dell’elettorato da Demirtaş in persona che, pur
carcerato, ha riportato l’8,5% dei consensi in occasione delle blindatissime
consultazioni del giugno 2017 con cui Erdoğan ha avvìato il presidenzialismo
più autoritario della storia nazionale.
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