Dopo un mese di criminalità privata praticata,
esibita e rivendicata pubblicamente l’Arabia dei Saud continua a essere sulla
bocca di tanta opinione pubblica, nelle penne di molti commentatori, nei
proclami della geopolitica mondiale. Anche in casa c’è chi parla del caso,
seppure con morbida accortezza, ma l’ipotesi lanciata di affiancare un premier a
bin Salman cade immediatamente nel vuoto, visti i suoi comportamenti
liquidatori verso qualsiasi ingerenza alla propria pianificazione politica. Del
resto lui non ci aveva pensato due volte a umiliare parenti prossimi e lontani
e businessmen arabi, sequestrandoli per giorni in un hotel iper stellato di
Riyadh al fine di estorcergli consenso sul suo operato. Ha fatto defenestrare,
per ora solo politicamente, il cugino designato al trono secondo una prassi
consolidata da decenni. Ha stravolto e innovato il panorama interno a suo
piacimento, fino a stroncare con un omicidio truce e sanguinario un personaggio
noto come l’opinionista che lo criticava.
Chi lo conosce bene afferma che se limitato nelle mosse il principe
si sentirà in gabbia e attaccherà chiunque provi a contenerne le smania di
potere. Dopo l’assassinio di Khashoggi, trascorso senza intoppi, c’è chi giura
che MbS anziché sospirare a fondo per lo scampato pericolo d’un suo coinvolgimento
geopolitico prima che giudiziario, alzerà ancor più pretese e boria aumentando
la temerarietà criminale. Proprio come sta facendo fare al Paese nel conflitto
yemenita, da oltre un anno in condizione di stallo e responsabile solo di
massacri di civili e crisi umanitaria. Nell’orizzonte geopolitico che ha
interagito con la vicenda, Stati Uniti e Unione Europea sono troppo compromessi
negli affari con la petromonarchia per troncarne i rapporti, indispensabili
soprattutto per il nuovo assetto che riguarda l’area regionale dove agiscono
altri alleati ferrei di Washington: Israele ed Egitto. Un fronte storico che interviene
uniformemente sulla questione palestinese, mentre i sauditi risultano
strategici nel contenimento della presenza iraniana nel piccolo Medioriente.
E’ così da tempo. L’amministrazione Trump ribadisce con maggiore
energia quest’orientamento, passando oltre anche su un evento indifendibile
come il truculento omicidio di un editorialista d’un media americano, integrato
nel suo territorio; un misfatto ammesso
e archiviato dagli interessati a mo’ d’inciampo da nulla. Del resto l’alibi è
trovato nella collocazione della vittima: un giornalista, categoria che i
potenti accettano solo nella posizione di servitori propagandisti, che era
peraltro un opinionista critico, e per ultimo ma non certo meno importante
veniva tacciato d’adesione alla Fratellanza Musulmana. Questa componente è
odiata dalla monarchia Saud alla stregua di come viene detestata dai militari e
dai partiti laici egiziani, poiché rappresenta un nemico politico. Ma allo
stato attuale è difficile pensare di sganciare l’Arabia Saudita dai mercati
internazionali di idrocarburi di cui la nazione araba è un pilastro, e tutto
ciò diventa il motivo portante dell’evanescenza di reazioni internazionali a un’infamia
che in tal modo viene istituzionalizzata. La lezione saudita è esplicita e
didascalica e in giro troverà altri interpreti.
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