Tornano. Con le elezioni di medio termine il clan Trump si gioca la
carta sanzioni contro un nemico giurato, non necessariamente il suo, ma
dell’elettorato pistolero che lui ha conquistato, al quale dà in pasto il
quarantennale rivale iraniano. Anche l’America democratica lo vedeva come
bersaglio per la questione nucleare, poi Obama optò per l’accordo
che poteva tornar utile a una partita non più sua (era al secondo mandato)
ma trasferita su Hillary, Segretario di Stato candidata alla
presidenza. Lady Clinton è stata incapace di trasformare in successo due
punti di forza del programma: l’accordo stesso e la questione di genere che l’avrebbe fatta
prima donna alla Casa Bianca. Si sa com’è andata a finire. Ora alla pancia statunitense,
alle sue viscere più oltranziste guerrafondaie, xenofobe, fondamentaliste il
presidente miliardario restituisce un terreno di scontro che potrebbe non
essere solo economico. Gli effetti nel Paese degli ayatollah sono già evidenti e non sembrano essere vantaggiosi per Trump.
Le manifestazioni popolari a sostegno del governo e della nazione stanno mostrando
una partecipazione giovanile, mentre solo un anno fa studenti e gioventù disoccupata
riempivano piazze diverse, contestando Rohani,
crisi monetaria e inflazione crescente.
In realtà pur senza un embargo aperto, l’Iran sentiva egualmente,
anche in fase di accordo sul nucleare, una palese stretta economica dovuta
alla mancata normalizzazione delle transazioni finanziarie con ricadute in ogni
settore. Era la pozione velenosa che il sistema bancario mondiale, su cui pesa
ancora tanto l’influenza delle strutture del capitalismo occidentale, serviva
alla nazione mediorientale, sebbene i cinque firmatari
dell’accordo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia) più la
Germania avessero sulla carta azzerato le sanzioni. Il contrordine avrebbe dovuto
rilanciare quella cooperazione mercatile di beni e servizi utili un po’ a
tutti nelle dinamiche del libero scambio o di accordi connessi, compensando il
peso di quei prodotti (gas e petrolio) che fanno dell’Iran uno Stato redditiere.
Nei tre anni trascorsi, fra l’ultimo periodo del mandato a Obama e il biennio trumpiano,
non è stato così. Non lo è stato non solo per le nazioni occidentali firmatarie
dell’accordo, ma pure per quegli alleati che lo subiscono in subordine. Come l’Italia.
L’esempio più lampante riguarda le forniture del gas. L’Iran è dopo la Russia e ben prima del Qatar il Paese con maggiori riserve mondiali. Il suo business d’esportazione è però
limitato, e non tanto perché il rango di concorrenza si è ampliato e negli
ultimi anni vede risalire la china i produttori di gas scisto. Proprio gli Usa
con quest’antiecologica estrazione ora occupano la quarta posizione mondiale.
Il dislivello fra i molti produttori sparsi nei continenti e Russia-Iran-Qatar resta comunque
amplissimo, poiché la triade detiene riserve stimate in oltre cento migliaia di miliardi
di metri cubi di gas. Lo scorso anno, pur con 12.9 miliardi di metri cubi di
gas e 2 milioni 125.000 barili al giorno di petrolio esportati, i mercati di
Teheran, che trovano recettività in giganti industriali bisognosi d’energia come
Cina e India, hanno riscontrato flessioni. Il rilancio dell’embargo può scavare
ulteriori solchi, specie se le potenze occidentali s’adatteranno alle smanie
del presidente americano per non cadere nelle previste ritorsioni economiche
rivolte a loro stesse. Frattanto le strade iraniane, dove la gente si trova
inevitabilmente a discutere degli eventi, e in altri luoghi pubblici come bazar
e moschee, cresce il risentimento. Ieri il capo di Stato maggiore Ali
Jafari ha dichiarato a quello che definisce "lo strano presidente Usa": "Non intimidirci, non spaventarci con minacce
militari". Una folla copiosa l’applaudiva.
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