La guerra dell’Isis prosegue, lontana da Kobanê
e Raqqa. Va nel cuore d’Europa, come durante l’assalto parigino alla redazione
di Charlie Hebdo dello scorso gennaio.
Coinvolge i luoghi del divertificio occidentale: le spiagge maghrebine, ma
potrebbero essere i lidi di qualsiasi nazione. L’odierna cronaca parla di nuovi
attacchi: un impianto di gas francese nella val d’Isère, a trenta chilometri da
Lione, la spiaggia tunisina di Sousse. Nella prima gli attentatori che, secondo
gli inquirenti puntavano a un’enorme strage facendo esplodere la struttura, disegno
fortunatamente fallito, lasciano il macabro marchio del proprio terrore: una
testa umana mozzata e le bandiere nere dello Stato Islamico. Nei resort
tunisini il medesimo jihad pratica un tiro al bersaglio sui vacanzieri,
sterminandone 27, prevalentemente inglesi e francesi. E’ l’ingombrante e
allucinante guerra che l’Europa non vorrebbe combattere e che la trasforma in target
fisso, nelle sue città, fra le sue cose, coi suoi cittadini. Ovunque si
spostino. E’ la trasmigrazione del terrore che l’attuale brand denominato Isis
ha esposto nella trucida propaganda e
ora serve direttamente, come, e forse peggio, aveva fatto un’altra fase del Jihad,
gestito dal Movimento islamico armato negli anni ’90, rivolto sempre ai
francesi, fuori e dentro la Francia.
L’infinita ‘guerra santa’ - che in certe fasi sembra
esaurirsi poi rispunta tornando sui suoi passi, rielaborando vecchie formule,
mutuandole oppure mutandole - rappresenta un fantasma che non scompare. In un
solo Paese da quant’anni tale progetto non è mai tramontato: l’Afghanistan.
Altrove, in Medio Oriente, Africa o Europa, l’Occidente pensa di contenerlo o
cancellarlo, ma non attuando soluzioni adeguate e contrastando quelle autoctone
lo alimenta. Parliamo di nutrizioni indirette, non di quelle fomentate con
precisi piani strategici. Sebbene l’irrisolta questione palestinese e le
persecuzioni dei disegni politici dell’Islam militante non armato offrano altri
punti d’osservazione, non è un segreto: la madre di ogni moderno jihad che è
quella afghana avviò il suo corso grazie ai cospicui finanziamenti occidentali
e all’uso anti sovietico della conseguente guerriglia. Questa prassi è
proseguita, dai mujaheddin ai qaedisti, fino ai miliziani delle guerre siriane,
libiche e di altre piazze, dal Maghreb al Mashreq. Però oltre lo scacchiere dei
giochi egemonici delle potenze mondiali, oltre l’intreccio delle alleanze di
cui i Grandi del mondo possono godere, esistono ulteriori realtà che si
confrontano e scontrano.
Nell’Islam conosciuto di sponda sunnita e
sciita, e in quello sempre più presente nelle nostre società grazie alle
inevitabili migrazioni. Dove un sistema invecchiato non solo nelle strutture e
nelle popolazioni, ma negli stessi ideali di vita non integra più nessuno.
Hanno voglia politici, sociologi, filosofi, predicatori a invocare inserimenti,
il falso melting pot della bella
democrazia sembra non funzionare più, se mai ha funzionato. Anche perché
contorni e contenuti mostrano crescenti ingiustizie e mostruose corruzioni.
Riflettere può servire a intravvedere quali valori rilanciare, su quali basi
trasformare un sistema sociale che nel continente chiamato Europa sempre più è
e dovrà essere multietnico, multireligioso, multiforme. Affinché i progetti
fondamentisti musulmani, o d’altro genere (si pensi alle chiusure razziste,
xenofobe, parafasciste diffuse fra i confini del continente antico) non
prendano il sopravvento. Mentre l’orizzonte degli ideologi che preparano lo
scontro, palese o celato, cresce in maniera esponenziale fra le bandiere nere e
quelle che non attraggono più.
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