Le bombe,
i morti -
Le bombe, il sangue, i morti, addirittura quattro, rendono l’aria pesante non
solo nelle ore che separano dal voto, ma dopo quello che le urne
determineranno. Perché il risultato più gettonato dai sondaggisti prevede una
tenuta, dunque non un successo assoluto, per il partito islamico e un’avanzata
della coalizione dei kurdi e della sinistra democratica, quell’Hdp sul cui
corpo militante sono stati collocati gli ordigni. Uomini da lacerare, a
vantaggio di chi? Erdoğan ha parlato di provocazione, ma ha colto l’occasione
per riaprire polemiche, con Demirtaş inanzitutto che non avrebbe risposto alla
sua chiamata di solidarietà e condoglianze per le vittime. Quest’ultimo, pur
invitando gli elettori (l’aveva fatto anche a caldo nella Diyarbakır
insanguinata) a non farsi travolgere dagli eventi, volti a seminare terrore e
innescare una conflittualità che il governo può gestire in funzione antidemocratica,
ha risposto sostenendo come il compito d’un presidente sia scusarsi col popolo.
Al suo popolo Demirtaş ha detto di votare per conquistare l’agognato 10% e
forse anche di più.
A chi
giova? -
Ma chi ha programmato un attentato, che allungherà la sua ombra, oltre la scia
di sangue che si lascia alle spalle? L’analisi degli ordigni li scopre
artigianali: piccole bombole di gas imbottite di sfere e chiodi, comunque
mortali. Se non lo fossero state la strage avrebbe assunto proporzioni
catastrofiche. Chi le ha collocate? quei Servizi che scoperti dal Cumhuriyet
smistare armi e munizioni verso i più fondamentalisti fra i combattenti di Siria?
E’ presto per dirlo, sebbene un passo simile andrebbe a colpire il governo in
carica. Sevizi deviati? E quali? Gli agenti amici di Fethullah Gülen e perciò
nemici del presidente o i residuati di quello ‘Stato profondo’ del ‘partito dei
militari’ in odore di golpismo contro cui proprio Erdoğan ha condotto una dura
lotta otto anni or sono? Certo, dal riflesso emotivo il partito islamico non
guadagna; quei kurdi, di cui taluni sondaggi dei giorni scorsi evidenziavano
un’incertezza nella scelta di lista, restano attoniti. Come loro tanti
cittadini, che oggi toccano con mano insicurezza fisica e progettuale nella società,
potrebbero abbandonare le certezze dell’erdoğanismo.
L’economia
confronto scottante - Radicate sul boom economico a doppia cifra, successivo alla
crisi di fine anni Novanta, che, fatte le debite proporzioni numeriche, lanciava
l’ambìto paragone con la Cina. Una corsa con relativi sogni direttamente
gestito dall’islamismo di governo, che negli ultimi tempi ha registrato frenate
e incide sulla scalata sociale dei ceti umili, non solo quelli rurali e dell’Anatolia
profonda. Incide sulla stessa componente operaia urbana che, grazie al quel boom,
ha potuto sostenere l’ultima generazione verso studi superiori e addirittura universitari,
nella speranza di collocare i figli in un circuito lavorativo di tecnologia,
marketing e business. Lo smottamento occupazionale ha toccato marginalmente le
grandi opere, di cui si serve il populismo del partito di maggioranza e che
anche l’opposizione laica prova a cavalcare (il programma repubblicano propone
di fondare una nuova città dei servizi e hub dell’energia) ma la disoccupazione
è una presenza inquietante anche in Turchia, ora raggiunge l’11.3%. Così il
blocco sociale interclassista su cui l’Akp ha conquistato e tenuto per 13 anni il
potere, può incrinarsi. A discapito, come ovunque nel globo, di classi umili e
piccola borghesia.
Paese a
due velocità
- Non sono temi nuovi, i dati staticisti hanno evidenziato già da anni il trend
in ribasso. S’è passati da un tasso di crescita del 6.8 fra il 2002 e 2007,
all’attuale 3.2 nella flessione iniziata dal 2008. Annus horribilis della crisi mondiale, che la Turchia erdoğaniana
ammortizzava meglio di qualsiasi nazione europea, considerando anche la mole
della sua società (78 milioni di cittadini). Il beneficio dei numeri e della
crescita, non erano però per tutti eguali. A Diyarbakır, e in tante province
kurde del sud-est, raccontano altre storie. Ricordano mancanze strutturali
volute, punizioni ideologiche e collettive, inferiori solo alla “guerra sporca”
e alle deportazioni verso le comunità locali compiute dai governi di Ankara nel
corso degli anni Novanta. Un periodo al quale Erdoğan si vanta di non
appartenere, perseguitato anche lui dai kemalisti più duri, sicuramente perché
schierato su un altro fronte considerato avverso. Fra l’antica Turchia dei
militari golpisti e l’islamismo conservatore dell’Akp, i kurdi non scelgono partnership.
E’ la realtà politica che poteva mettere di fronte, come abbiamo detto, Akp e
Hdp, unici partiti interessati a un
dialogo su cui veglia da anni il carismatico prigioniero Öcalan. Queste bombe
mettono tutto in forse.
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