domenica 9 marzo 2025

Mohammad, cronache da un “Paese sicuro”

 


“Sono in galera anche se i miei tempi (di condanna, ndr) sembrano diversi da quelli di altri detenuti. Non ho ricevuto la grazia mentre scontavo una pena con l'accusa di diffusione di notizie false. Le indagini, la telecamera, il telefono cellulare sono stati usati contro di me. Sono stato arrestato all'interno di un tribunale dove seguivo la sessione d’un processo. Un procuratore e un avvocato corrotto mi hanno teso un'imboscata. Avevo quindici minuti di tempo e sarei potuto fuggire. Ma ero controllato a vista, la Forza di Sicurezza Nazionale è arrivata mentre sostavo nel corridoio aspettando la decisione del giudice per poter uscire, finire il mio lavoro e dare seguito al resto dell’inchiesta”.

“Mi hanno fermato e ammanettato davanti agli avvocati e alle famiglie degli imputati. L’inchiesta era partita nelle settimane precedenti, riguardava la collusione della polizia di Mansour con spacciatori e criminali comuni. Avevo raccolto parecchie informazioni, prove, dati, immagini su agenti coinvolti. Sono caduto nelle mani di due di loro che hanno minacciato di uccidermi. Uno mi ha puntato l’arma in faccia, premendo la canna sul mio sopracciglio gridava: "Posso ucciderti adesso. Avrò molti testimoni sul tuo tentativo di assaltare la stazione di polizia, nessuno sarà in grado di ritenerci responsabili qualunque cosa accada”.

E’ la testimonianza cruda e reale con cui Mohammad (nome di fantasia a tutela della sua incolumità) racconta - ora ch’è fuori di prigione - la sequela di oppressioni, vessazioni, carcerazioni, abusi giuridici, fisici, torture ricevute nel corso degli anni nel  Governatorato egiziano d’origine, per avere la passione della scrittura di cronaca con cui seguiva per alcune testate giornalistiche vicende di vario genere. 

 

“Sabato 28 giugno 2014, dalle dodici fino alle diciotto sono stato torturato. Mi hanno bendato, picchiato duramente, minacciato di violentarmi, messo su un letto elettrico e steso su una bottiglia di vetro sottile. Mi hanno ‘fulminato’ più d’una volta e c'era il vicedirettore della “Dakahlia Security”. Aspettava che il trattamento finisse. Successivamente l'ufficiale della Sicurezza Nazionale ha terminato e mi ha restituito agli agenti investigativi che durante quel periodo avevano poteri illimitati. Hanno portato a termine le indagini, hanno minacciato me e la mia famiglia, dicevano che non sarei più uscito di galera. Non sono rimasto in silenzio, ho rivendicato i miei diritti. Mi rispondevano: la legge che hai studiato è diversa da quella che applichiamo. Ho accusato gli investigatori di avermi torturato, ho chiesto di sporgere denuncia, il pubblico ministero s’è rifiutato di mettere a verbale le accuse. Dopo due settimane di indagini sono stato deferito al Tribunale per i reati minori, alcune delle accuse attribuitemi (creazione d’un gruppo mediatico, incitamento a rovesciare la Costituzione, diffamazione del Presidente) erano cadute. E’ stata mantenuta quella di pubblicazione di notizie false. Dopo quattro mesi di dibattimento sono stato punito con due anni di reclusione e la confisca dei documenti. Ho scontato la pena fra condannati per omicidio, aggressione al pudore, stupro, spaccio e furto. Ho conosciuto la prigione pubblica di Mansour, quella generale di Tanta, quella di massima sicurezza Skorpion 2. Prigioni nel vero senso della parola. Un mondo parallelo del male con cani poliziotto, pestaggi, minacce di morte, negazione di visite esterne, privazione di cibo, acqua, aria, medicine e cure. Era davvero un altro mondo. Buio. Angoscioso. Abbandonato. Prima della scarcerazione sono stato avvicinato da due agenti che m’intimavano di stare lontano da vicende politiche. Potevo vivere come volevo, ma avrei dovuto evitare politica e giornalismo”.

 

“Invece ho continuato col giornalismo e dopo un paio d’anni sono stato nuovamente arrestato. Le condizioni sono peggiorate, le indagini erano più violente. Sono stato torturato con l'elettricità, il mio corpo veniva bruciato con benzina e scosse elettriche. Uno dei carcerieri, precedentemente condannato in uno dei casi su cui avevo indagato, mi ha bruciato la schiena col fuoco, gli effetti perdurano. Fra le inchieste realizzate c’erano sparizioni forzate di cittadini e nel 2018 l'incidente della chiesa del monastero di Anba Samuel nel governatorato di Minya (nove pellegrini copti uccisi e dodici feriti da uomini mascherati mai identificati, ndr). In seguito gli investigatori sospettavano che avessi reclutato militari e poliziotti, non era vero ma la cosa mi è costata un ulteriore fermo e torture. Ho addirittura subìto denunce da alcuni colleghi del quotidiano Al-Masryoon, la direzione del giornale non si è mostrata solidale nei miei confronti. Purtroppo ho combattuto questa battaglia in completa solitudine. Un periodo decisamente peggiore rispetto al precedente. Sono stato rilasciato dopo quattro anni, dopo averne trascorso sei fra carceri, stazioni di polizia e centri di detenzione illegali. Sono stato allontanato arbitrariamente dall'università che non ha accettato una reiscrizione dopo avermi annullato l'esame sostenuto in carcere, sono stato privato dei diritti politici, compreso il voto alle elezioni per più di undici anni. Mi ritengo un uomo di sinistra che ha praticato il giornalismo in modo trasparente. Avevo dozzine di opportunità e non ho inseguito guadagni rapidi. Ho sempre cercato di sostenere le cause degli oppressi per ragioni politiche e sociali, ho praticato il mio lavoro in maniera professionale e onesta senza rincorrere la fama. Non cercavo ruoli da protagonista. Non ho mai dimenticato Regeni, che pensava di poter passare di qui sano e salvo, né dimenticavo ragazze e ragazzi sottoposti agli atti più orribili all'interno di celle di sicurezza. Purtroppo noi in Egitto non abbiamo alcun diritto. Tuttora viviamo sospesi. E’ bene che il mondo sappia”. Fra i sospesi continua il suo calvario carcerario Alaa Abd el-Fattah entrato, come la madre, in sciopero della fame.

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